Dall’assistente infermiere alle lauree magistrali cliniche, passando per il trasferimento di competenze: il Servizio sanitario nazionale tenta di adattarsi a una crisi strutturale di personale e a un quadro demografico in rapido deterioramento. Ce ne parla il nostro opinionista Giuseppe Cerullo
Nei giorni scorsi due snodi istituzionali hanno
accelerato un processo di cambiamento già in corso. La Conferenza delle Regioni
ha approvato il Piano strategico nazionale per l’attuazione del DPCM 28
febbraio 2025, che introduce il nuovo profilo di Assistente infermiere,
fornendo alle Regioni le linee guida per avviare i corsi, definire il
fabbisogno e integrare gradualmente questa figura nei servizi sanitari e
socio-sanitari. Parallelamente, il Ministero della Salute ha completato il
decreto sulle prime tre lauree specialistiche in Infermieristica e lo ha
trasmesso al Parlamento, aprendo alla possibilità di attivare i nuovi percorsi
già dal prossimo anno accademico. Questi interventi si inseriscono in una
trasformazione silenziosa ma profonda del modo in cui l’Italia organizza e
distribuisce il lavoro sanitario. La crisi degli infermieri, alimentata da una
carenza cronica di personale e dal calo delle iscrizioni ai corsi di laurea,
sta costringendo il sistema a ripensare ruoli, competenze e percorsi formativi.
Non è un disegno nato da una visione di lungo periodo, ma un adattamento reso
necessario da un contesto demografico e sociale in rapido peggioramento: una
popolazione più anziana e fragile, una riduzione della forza lavoro e
retribuzioni sanitarie inferiori alla media europea. Il primo intervento
riguarda l’introduzione dell’assistente infermiere, profilo intermedio tra
l’operatore socio-sanitario e l’infermiere, formato in tempi più brevi rispetto
alla laurea triennale e destinato soprattutto ai contesti a medio-bassa
intensità clinica come RSA, ospedali di comunità e reparti con pazienti cronici
ma stabili. L’obiettivo è coprire rapidamente le carenze più gravi,
intercettando una platea di lavoratori non orientati verso un percorso
universitario completo ma alla ricerca di un impiego stabile e immediato.
Accanto a questo, vengono istituite le lauree magistrali cliniche per evitare
che l’infermieristica resti una professione massificata, priva di possibilità
di crescita e confinata in funzioni gestionali spesso lontane dall’assistenza.
Le magistrali cliniche puntano a creare percorsi avanzati che consentano agli
infermieri di acquisire competenze specialistiche, accedere alla dirigenza
sanitaria rimanendo nell’area clinica e ambire a retribuzioni più adeguate alla
complessità del ruolo. Senza opportunità di sviluppo, ogni professione perde
attrattività e fatica ad attirare nuovi studenti. Il terzo asse è il task
shifting, il trasferimento regolamentato di alcune competenze da una
professione all’altra. In aree dove la carenza di medici è più evidente
(territorio; emergenza-urgenza) infermieri con formazione avanzata potrebbero
svolgere attività oggi riservate ai medici. È un modello diffuso in molti
Paesi, ma in Italia incontra resistenze culturali e identitarie: i medici
temono un arretramento del proprio ruolo, gli infermieri guardano con sospetto
all’introduzione dell’assistente infermiere come possibile dequalificazione
della categoria. Ogni professione tende a vedere questi cambiamenti come un
compromesso al ribasso, nato più dall’urgenza di mettere qualcuno in quel posto
di lavoro che da un progetto evolutivo. Eppure l’alternativa non è più
sostenibile. Un sistema in cui nessuna figura può crescere, mentre le
retribuzioni restano poco competitive rispetto alla media europea, diventa meno
attrattivo e non riesce ad assicurare il ricambio generazionale. La vera
partita si giocherà sulla qualità della formazione richiesta per accedere alle
nuove competenze: da questo dipenderà se il modello potrà reggere o se si
limiterà a sostituire competenze qualificate con soluzioni al ribasso. L’Italia
è davanti a un bivio: ripensare con lucidità la distribuzione del lavoro
sanitario oppure subire l’impatto di una crisi strutturale destinata a durare
decenni. Gli interventi in corso non rappresentano un disegno compiuto, ma il
tentativo di adattare il Servizio sanitario nazionale a un equilibrio
demografico, economico e professionale che non esiste più. Il risultato
dipenderà dalla capacità di governare questi processi con rigore, investire
seriamente nella formazione e mantenere ferma l’idea che innovare non significa
semplificare le competenze, ma armonizzarle al servizio dei bisogni reali della
popolazione.
Giuseppe Cerullo
