Esclusiva Calvizzanoweb, un altro prezioso tassello di storia locale: l’antica Chiesa Parrocchiale di San Giacomo Apostolo Maggiore a Calvizzano, a cura del prof. Luigi Trinchillo
“Spene”, diss’io, “è
uno attender certo
de la gloria futura, il qual produce
grazia divina e precedente merto.
Da molte stelle mi vien questa luce;
Ma quei la distillò nel mio cor pria
Che fu sommo cantor del sommo duce.
‘Sperino in te’, ne la sua teodia
dice ‘color che sanno il nome tuo’:
e chi nol sa, s’elli ha la fede mia?
Tu mi stillasti, con lo stillar suo,
Ne la pìstola poi; sì ch’io son pieno,
Nel 1337, Calvizzano
era una delle tre Arcipreture, insieme a
quella di Afragola e Torre del Greco, della provincia napoletana. L’Arciprete calvizzanese conservò tale
privilegio per secoli, fino alla seconda meta del ’500, quando, per motivi
storicamente non precisati nei documenti a nostra disposizione, esso gli venne
sottratto e trasferito a favore della Parrocchia di Santa Maria delle Grazie a
Capodimonte
La prima Chiesa di
Calvizzano storicamente accertata pare
sia stata proprio quella dedicata a San Giacomo Apostolo Maggiore[2].
Essa sorgeva in una zona eccentrica, rispetto al centro abitato, secondo l’antica
organizzazione degli spazi cittadini, che suggeriva di erigere gli edifici di
culto in zone non proprio centrali, in genere più densamente popolate, bensì in
periferia, pur se facilmente raggiungibili e/o accessibili. Questa disposizione
deve far pensare che fosse scelta soprattutto per favorire la preghiera e la
riflessione, come accadeva da sempre per i romitori, i conventi e i monasteri,
abitualmente edificati in zone isolate, circondate da boschi o da campagne
aperte, se non del tutto disabitate, esaltando, così, il valore
dell’eremitaggio e della scelta esistenziale della comunità, che spesso
sceglieva una testimonianza di clausura.
I luoghi dove si celebravano
azioni di culto erano tradizionalmente accompagnati da una torre, in grado di
diffondere i rintocchi delle campane, capaci di richiamare i fedeli in occasione di funzioni religiose. I
rintocchi scandivano, in ogni caso, anche il tempo “civile”, “laico”, del lavoro
e della quotidianità, e non solo quello “religioso”.
Nella Calvizzano del IX/X
secolo d.C., tale edificio parrocchiale si trovava lungo una strada secondaria,
quasi un sentiero campestre, incuneata tra il territorio di Calvizzano e quelli
di Marano e di Mugnano.
Il primo documento in cui
la nostra Chiesa viene esplicitamente citata risale al 951 d.C.,
anche se è lecito supporre che già in precedenza, nella zona, esistesse un
luogo di culto. Nel testo del primo vero
storico locale, il compianto professor
Don Raffaele Galiero, si afferma che, in tale data, “Giovanni, Console e Duca
di Napoli, cambia un moggio di terra, situato a Calvizzano, con la terra di
Cesario Ferrario, posta nel campo dinanzi a S. Giacomo. Un accenno posteriore,
ma più esatto, si riscontra nel testamento di una certa Maria, fatto nel 1105.
Essa lascia(va), al Monastero di San Gregorio Magno una sua terra nella chiesa
di S. Giacomo dello stesso luogo”[3].
Risulta, pertanto, che già
al passaggio dal primo al secondo Millennio dopo Cristo dovesse esistere una
Chiesa ben strutturata a Calvizzano, dedicata a San Giacomo Apostolo, che
poteva contare su entrate sicure, derivanti da donazioni, probabilmente ancora più
antiche. Nella zona detta di ‘Corigliano’, la Parrocchia aveva infatti acquisito
lasciti e terreni, che le assicuravano introiti annui certi, per la
celebrazione dignitosa della Santa Messa festiva e dei riti sacramentali
connessi. Ricaviamo tale informazione dalla relazione trasmessaci a cura degli estensori
del verbale certificato, redatto dai prelati della Curia di Napoli, al seguito
della Santa Visita svolta nel 1598, quando alle “14 moggia di terreno” risultanti
da precedenti atti documentati, si attestava che se ne erano aggiunti “altri 10”,
relativi a terreni posti intorno alla Chiesa[4]
e rimasti sotto il controllo della Parrocchia fino all’epoca a noi più vicina, anzi,
quasi contemporanea, fino, cioè, alla riforma seguita ai rinnovati accordi tra
lo Stato Italiano e la Santa Sede, della metà degli anni Ottanta del Novecento,
quando i beni immobili già ecclesiastici furono accorpati nella cura del responsabile
degli Affari Economici della Diocesi di pertinenza: per noi, evidentemente, Napoli.
Dal punto di vista della
pratica del culto, nell’antico “Rituale della Chiesa Napoletana”, che viene
fatto risalire al 1337, veniva stabilito che l’Arciprete di Calvizzano fosse
uno dei tre che doveva intervenire alla Messa
Pontificale che si celebrava nella prima domenica di maggio, in onore di
San Gennaro[5]. Tale
privilegio era assegnato per diritto di antichità del titolo parrocchiale,
secondo il criterio delle caratteristiche del territorio: Calvizzano
rappresentava l’Arcipretura relativa ai luoghi montuosi (“circa Montes”),
Afragola quelli dei territori pianeggianti e Torre del Greco
quelli delle zone marittime. L’Arciprete calvizzanese conservò tale
privilegio per secoli, fino alla seconda meta del ’500, quando, per motivi
storicamente non precisati nei documenti a nostra disposizione, esso gli venne
sottratto e trasferito a favore della Parrocchia di Santa Maria delle Grazie a
Capodimonte.
Un’annotazione storica puntuale
relativa alle origini religiose della nostra Comunità parrocchiale, per
cui “non possiamo non dirci cristiani”, ci viene dall’osservazione che due
punti antitetici del nostro Paese sono legati indissolubilmente alla pratica
della pietà popolare calvizzanese. Intendo parlare della “località San
Pietro”, dove l’omonima Cappella, ancora oggi situata in una posizione parecchio
decentrata rispetto al centro storico, fin dal nome ricorda il probabile
passaggio dell’apostolo Pietro (e forse anche del confratello ‘Apostolo delle
Genti’, Paolo) sulla strada romana che metteva in comunicazione il Porto di Pozzuoli
con Capua, quasi una “variante” dell’antico percorso verso la Via Appia, lungo
la cosiddetta “Via Campana”; e la primitiva Chiesa parrocchiale di “Santo
Jacobo”, ovvero San Giacomo, primo nucleo autonomo dei fedeli locali, oggi
ridotta a poco più di un rudere, ma col titolo ben radicato nell’unica
parrocchia del territorio, incidente fra Villaricca, Marano, Mugnano e Qualiano:
tutte unità territoriali di gran lunga più estese. La Parrocchia di
Calvizzano risulta essere la più antica fra quelle che recano la titolazione
di San Giacomo Apostolo Maggiore. Infatti, la sua esistenza risulta
storicamente provata e registrata nell’anno 951, con la precisa dizione di “Ecclesia
S. Iacobi”. I resti storicamente accertati della originaria Chiesa Parrocchiale
del nostro Paese, fino a pochi anni fa, erano ben evidenti nella località detta
di “Santo Jacolo”, ora ridotti in poco decorose condizioni di abbandono, tra
erbe spontanee sovrabbondanti e piante selvatiche, rovi, materiale di risulta
indifferenziato. Eppure, in quel luogo, per secoli, la Comunità di Calvizzano
si ritrovava per partecipare alla celebrazione dell’Eucaristia e ai riti correlati
alle azioni sacramentali. Le funzioni istituzionali pertinenti al ruolo di
Chiesa-madre del Paese furono, tra il secolo XVI e gli inizi del secolo XVIII,
in più tappe e in momenti successivi, trasferite nella Chiesa di Santa Maria
(un tempo ‘Annunciata’)[6],
vale a dire nell’attuale Chiesa parrocchiale dedicata alla Madonna delle
Grazie. È appena da ricordare, a questo punto, che fu il Cardinale Francesco
Carafa che, nel corso della Santa Visita dell’agosto 1542, segnalò per primo le
precarie condizioni dell’edificio di Via Sancti Iacobi (San
Giacomo), che non offriva ormai condizioni ottimali e dignitose per la
conservazione delle Sacre Specie, per cui scelse la Chiesetta consacrata a Maria Annunziata, più centrale e meglio tenuta,
per svolgere tale mansione onorifica e pratica. Che fosse (o fosse stato per
secoli) un tempio ben organizzato, lo attesta perfino un elemento indiretto,
che è dato a tutti noi di poter ammirare: la bella immagine dell’Apostolo
Giacomo che è allocata nella nicchia centrale, sopra l’altare, della terza
Cappella di sinistra entrando in Chiesa, che è un retaggio accertato dell’antico
tempio. La statua lignea, infatti, fu ospitata per qualche tempo nel primitivo luogo
sacro, certamente in sostituzione di un’altra più antica, andata perduta. L’ abbigliamento
del Santo, ad un occhio attento, lascia intendere che è rivestito con un abito ‘antistorico’:
non quello del primo secolo d.C., come ci si potrebbe e dovrebbe attendere,
bensì quello secentesco, caratteristico del “Pellegrino Sconcio”, diffusosi
quando l’abitudine di indossarlo da parte dei pellegrini diretti a Santiago
di Compostela in un abito di tale foggia lo impose anche nelle icone
devozionali del nostro Protettore. Ancora più vetusta e circondata da una pia
venerazione, è una piccola reliquia, custodita in una teca sigillata e certificata,
che solo motivi di opportunità e sicurezza fanno tenere separata dalla statua.
Così la bella e venerata immagine di San Giacomo entrava nelle case dei nostri
concittadini[7], che
lo celebravano con una solennità particolare soprattutto negli anni della cosiddetta
“perdonanza composteliana”[8]:
quelli in cui la festa liturgica cadeva di domenica. Naturalmente era sempre l’Arcivescovo
della Diocesi che, con un atto solenne, decretava la concessione di questo speciale
privilegio, in genere in risposta ad una puntuale richiesta del Parroco
responsabile della Comunità locale[9].
Il prossimo anno in cui si potrebbe fruire[10]
dell’indulgenza plenaria jacopea sarà il 2021, e tutti i fedeli più sensibili
e legati sinceramente alle belle tradizioni trasmesseci dai nostri Padri e dagli
Antenati si augurano di poter rivivere.
Come attesta il Canonico
Professor Don Giacomo Di Maria in un suo essenziale fascicolo, pubblicato
nell’ottobre 1992[11],
“nel giugno 1990 si svolse un sopralluogo nella Chiesetta di San Pietro, in
località omonima del Comune di Calvizzano, per un’analisi dell’affresco absidale
alla presenza di fotografie ai raggi infrarossi (…) a cura e spese dell’amico
studioso di archeologia Nicola Severino, collaborato anche dal prof. Gaetano
D’Ischia. L’affresco originario sulla volta della storica abside (o cona) unita
all’attuale Chiesa rurale, da un “cattivo genio”[12]
fu coperto dalle immagini di San Pietro con le chiavi, della Madonna delle
Grazie e San Paolo. Dopo attento esame ed analisi e riflessioni, la dottoressa
archeologa Maria Laura Raimondi ci ha rilasciato questa dichiarazione:
“… L’ambiente interno della
Cappella, a navata unica, reca nell’abside di fondo un affresco, tale come
appare nella forma conseguente ai numerosi secoli di stratificazioni e
trasformazioni succedutesi a partire (forse) dall’epoca paleocristiana fino
all’800. La scena rappresenta la Vergine Maria con il bambino e i due
apostoli “preferiti” di Cristo: a sinistra San Pietro con le chiavi e a destra
San Paolo con il rotolo della legge. Già ad un primo esame ci si è resi conto
delle molte modifiche che hanno interessato la superficie affrescata; è facile
immaginare, infatti, come attraverso i secoli quasi mai si sia pensato di
rispettare le opere più antiche: così, oltre ai mutati gusti, che esigevano
forme nuove, contemporaneamente si imponevano opere di restauro e
ristrutturazioni che hanno inevitabilmente ed ulteriormente intaccato la
superficie pittorica. numerose, quindi, le immagini che traspaiono dal fondo
del dipinto, ma comunque difficili da decifrare e soprattutto da ricollocare
nel giusto ambito cronologico. Si è cercato, dunque, di porre l’attenzione
sugli unici elementi che sembrano riferirsi alla fase più antica della
decorazione. Tra questi, oltre a pochi resti di colore, assolutamente diversi
da quelli adoperati per la resa delle figure come si vedono attualmente, sono
stati particolarmente analizzati i piedi della figura centrale,
rappresentante appunto la Vergine Maria, ed in particolare il piede
sinistro. Tali elementi appaiono chiaramente riutilizzati nell’affresco
posteriore, come risulta evidente dalla resa pittorica tesa ad una decorazione
estremamente lineare con il disegno semplicemente tracciato in ocra su fondo
bianco, pur rispettando uno stile plastico-costruttivo che ne garantisce il
tratto realistico, assolutamente in contrasto con il forte cromatismo e la
notevole grossolanità delle figure attuali. Nulla vieta di pensare inoltre che
l’immagine rappresentata fin dalle origini fosse quella della Madonna con
Bambino, tema iconografico presente nelle decorazioni paleocristiane già
dal III secolo d.C. (Roma, Cimitero di Priscilla). Tali caratteristiche potrebbero indurre ad immaginare una
realizzazione del primo affresco in epoca paleocristiana; ma l’ipotesi, almeno
per ora, rimane tale dal momento che non è possibile esaminare la struttura
edilizia dell’abside, né tantomeno la preparazione parietale dell’affresco”. Ciò
detto, sembra potersi confermare che la popolazione di questa parte del
territorio posto lungo (o comunque a breve distanza dal) la Via Consolare
(detta anche Via Campana) ospitava una comunità che dovette aprire un luogo di
culto, una chiesa, capace di consolidare ed estendere la nuova religione
portata, in particolare, nell’Italia meridionale dagli apostoli Pietro e Paolo.
Credibile è, allora, che già dai primi secoli la Cappella ancor’oggi recante
l’intestazione al Principe degli Apostoli svolgesse un ruolo di riferimento, un
po’ fuori mano rispetto al centro abitato. In ogni caso, dal 951, sul nostro territorio, è segnalata nei
documenti l’esistenza di una Chiesa dedicata a San Giacomo, edificata su un
precedente tempietto probabilmente pagano o paleocristiano, ovvero, più
credibilmente, una villa di una facoltosa famiglia patrizia romana (come
attestato anche da reperti fotografici di una quarantina di anni fa). Tali reliquie
si presentano in pietra di tufo, con ricorso ad opus reticulatum, spuntano
sotto muretti, strutture pavimentarie e altri manufatti almeno del VII e VIII
secolo su cui sorgeva il primitivo edificio dedicato a San Giacomo. Dalla
ricognizione effettuata una trentina di anni fa, all’epoca del Parroco Don
Peppino Cerullo, rimanevano ancora leggibili tracce di intonaco, con
sovrapposta pittura policroma e tracce di pavimentazione in mosaico, con
tessere quadrate calcaree. La devozione riservata all’Apostolo, il primo a
subire il martirio, quasi certamente tra il 42 e il 44 d.C., offrendo la sua
vita a testimonianza della sua fede in Cristo, è stata da sempre diffusa fra la
popolazione locale, come attestato, fin dai primi registri redatti e conservati
nel nostro Archivio parrocchiale[13].
Il nome di battesimo di Giacomo veniva imposto non solo a maschietti, abitudine
tradizionale dalle nostre parti, bensì anche alle bambine: le Jacolelle, le
Mamine, le Giacomine abbondavano (e ancora se ne conserva qualche traccia
attiva!), tradizione che va, purtroppo, scomparendo, a favore di altri nominativi
ed appellativi più “alla moda”, spesso frutto di tendenze momentanee, mutuate
dai mezzi della comunicazione sociale. Inizialmente, la Chiesa-madre della
nostra Comunità dovette essere eretta quale Rettoria, poi diversamente
normata dopo la riforma ecclesiale approvata nel Concilio di Trento, che divise
le pertinenze di ciascuna zona pastorale e cominciò ad attribuire il titolo di Parrocchia[14]
alla Chiesa principale di ogni territorio, con successive ed ulteriori
suddivisioni, nel caso di un comprensorio molto vasto. Questo anche perché alle
parrocchie, come da tempo accadeva a monasteri a conventi, fu possibile
attribuire lasciti, legati ed eredità, anche e soprattutto col beneficio della
periodica celebrazione annuale di Sante Messe, a suffragio dell’anima di
benefattori oppure di persone care del Casato o della Famiglia, magari prematuramente
scomparse. Si spiega in tal modo la cospicua donazione di parecchie moggia di
terreno accumulata dal Patrono del nostro Paese e utilizzate per assicurare la
celebrazione di un dignitoso culto divino, dei Sacramenti e delle funzioni
festive, settimanali e periodiche. In ogni caso, la coincidenza della
Parrocchia con la divisione amministrativa del territorio dovette favorire
(come accade tuttora) una perfetta identificazione, a Calvizzano, del Protettore
con la Comunità indigena. A San Giacomo fu dedicata nel nostro paese almeno dal
VII/VIII secolo una Chiesetta che rispondeva alle necessità pastorali dei non
numerosi cittadini calvizzanesi[15].
Essa deve essere stata, comunque, una delle più antiche nel Napoletano, se è
vero che persino a Napoli la prima Chiesa eretta e dedicata a San Giacomo sorse
solo nel 1238. Dal Calendario Marmoreo del secolo VIII o IX risulta che
l’annuale festa liturgica era celebrata il 25 maggio; solo dopo il Concilio
Tridentino fu definitivamente fissata al 25 luglio. Ecco quanto afferma, dopo
annose ricerche, il Canonico Don Giacomo Di Maria, che condusse indagini
specifiche, anche per rispondere ad un personale bisogno di illuminare di Santo
di cui recava il nome[16]:
“Per secoli la vetusta Ecclesia S. Jacobi – la parrocchia di frontiera a
Nord di Napoli, ubicata “circa montes” (Capodimonte), decorata
dall’Arcivescovo Giovanni III Orsini (1337), la prima delle tre dignità
diocesane: Arcipretura dei luoghi montuosi – divenne méta anche di napoletani e
di paesi vicini per lucrare della “grande perdonanza” (come a Compostella),
cioè un’indulgenza straordinaria per il perdono dei peccati; pellegrinaggi si
effettuavano nella festa o giorno di San Giacomo, e la città di Napoli – annota
l’antesignano dei cronisti calvizzanesi, il notar Sirleto (1663) – restava
quasi vuota e riceveva per divozione la tradizionale “Carità del grano”, atto
caritativo e religioso che si rinnova nell’attuale Chiesa parrocchiale di Santa
Maria delle Grazie (dal 1608), ogni anno nella festa liturgica – al 25 luglio –
distribuendo, alla fine delle Sante Messe, il pane benedetto”[17].
Il primo notaio
calvizzanese, vissuto nel Seicento, Marco Antonio Sirleto, autore di un fondamentale
manoscritto per la conservazione di memorie locali, noto come “Plateia”, che
amava definirsi “amante di antichità”, si impegnò a raccontare, per quanto possibile
fedelmente, le più antiche tradizioni dei vecchi cittadini di Calvizzano”. Egli
ci riporta sotto una indicazione particolare (“Carità del grano”), per
il 1663, la seguente dichiarazione:
“Nella festa o giorno di
S(an) Giacomo Ap(ostolo) restava quasi vuota la città di Napoli e le (località)
circonvicine per concorrere alla perdonanza e festa prescritta – non essendo al
tempo ancora edificata la chiesa di San Giacomo degli Spagnoli alla strada
Toledo di detta città (di Napoli) – per continuare l’antica usanza, essendo che
la Città in quel tempo non aveva altro spasso o delizia che venire in questo
Casale, come primo figlio di essa Città. E li poveri mendicanti del Regno da
estrema parte di esso venivano in detta giornata a ricevere la Carità del grano
che dispensavano e distribuivano le persone in detto Casale ed anche a quelli
si dava la Carità di mangiare. Il più povero di detto Casale in quella giornata
dispensava almeno un tomolo[18] di grano in allegrezza ed
in onore di San Giacomo, e gli altri da grado in grado facevano secondo le qualità
loro. Essendovi in quel tempo in detto Casale, Case e Famiglie ricchissime e
facoltose, il che al presente molti se lo ricordano. (…) ed oggi, deplorevole
giornata, per la grande penuria e povertà del Casale di Calvizzano, si è
lasciato di fare tanto bene”.[19]
[1] Dante, Paradiso XXV, 67 e seguenti. I versi riprendono il
dialogo tra San Giacomo e Dante, nella Divina
Commedia, con l’interrogazione rivolta al Poeta sulla speranza. Allo stesso modo, Dante dovrà affrontare la “verifica”
sulla fede (da parte di San Pietro)
e sulla carità (da parte di San
Giovanni Evangelista). <>.
[2] Il nome
dell’Apostolo Giacomo deriva dall’ebraico “Jàgogob” (“colui che va sulle orme
di Dio”), reso in latino come “Sanctus Jacobus”, trasformato nello spagnolo
“Santo Jacobo”, volgarizzato (anche in italiano) in “Sant’Jacolo”, poi corretto
e contratto in “Santiago”. Nell’antico dialetto napoletano troviamo “Sant’Jacono”
o “Sant’Jacolo”. I pellegrini che facevano il tradizionale “cammino” verso
Compostela erano definiti “Santiaghisti”.
[3] Professor Don
Raffaele Galiero: Calvizzano. Dalle remote origini al IX anno del Littorio.
Stabilimento Tipografico del Cavalier
Pasquale Rocco, San Giovanni a Teduccio 65, 1931. “Terra posita in campo ante
S. Iacobum…”. (…) “Terra posita in loco Calbiczani coheret cum terra ecclesie
S. Iacobi de ipso loco”. Pagina 86.
[4] “In dicto casali
Calviczani in loco ubi dicitur ad Corillianum iuxta terram Sancti Iacobi”.
Archivio di Stato di Napoli.
[5] Tale processione
ha luogo ancora oggi, anticipata, tuttavia, al sabato che precede la prima
domenica di maggio, durante la quale (o subito dopo) è atteso il primo
prodigioso scioglimento annuale del sangue di San Gennaro.
[6] Risulta con la
garanzia di un verbale redatto a seguito della Santa Visita Pastorale
effettuata dal Cardinale Arcivescovo di Napoli Francesco Carafa, avvenuta il
16/17 agosto 1542.
[7] … E non solo:
anche i negozi, le stalle, i “pagliai”, gli edifici colonici avevano una
riproduzione dell’immagine del nostro Protettore, che vegliava e custodiva i
suoi figli nella fede (e le loro cose), secondo i modelli delle
rappresentazioni classiche del Santo Apostolo.
[8] Fu il Papa
Alessandro III che, nel 1179, dichiarò perpetuamente “Anno Santo Composteliano”
quello in cui la festa dell’Apostolo cada di domenica.
[9] È superfluo dire
che, per accedere ai benefici dell’indulgenza plenaria, dovevano essere
soddisfatte tutte le condizioni previste per i Giubilei generali: un’accurata e
completa Confessione, una buona Comunione, la recita del Credo, un’opera pia a
favore della Chiesa, della Comunità e dei poveri, la partecipazione alla Santa
Messa, una preghiera secondo le intenzioni del Sommo Pontefice, ecc.
[10] Lo si potrà?
Le premesse per la richiesta da parte della Comunità dei fedeli locali e del
Parroco ci sono già tutte.
[11] Il titolo
dell’opuscolo, significativamente, è “Una importante scoperta archeologica fa
ritrovare a Calvizzano la vera prima Parrocchia degli avi”, pubblicazione
realizzata ‘Pro manu scripto’ dal Centro Studi “Alberto Taglialatela” di
Giugliano in Campania.
[12] Sono le testuali
parole utilizzate dal professor Don Raffaele
Galiero, nel volume già citato.
[13]
Occorre
segnalare che fu una deliberazione del Concilio di Trento ad obbligare il
responsabile pro-tempore della vita parrocchiale, in genere il Rettore o
il Parroco, a tenere aggiornati i ‘registri delle anime’: dei Battezzati, dei Matrimoni,
dei Defunti, ecc., con annotazioni che spesso costituiscono oggi vere miniere di
notizie e dati, capaci di gettare sprazzi di luce a favore della Storiografia
locale. Venivano, infatti, annotati in essi anche eventi che sconvolgevano o
trasformavano la quotidianità esistenziale dei fedeli: lo scoppio di
un’epidemia o di una guerra, un terremoto disastroso, un incendio, la visita di
un personaggio illustre, e via dicendo. Inoltre, venivano registrati i nomi dei
Parroci che si susseguivano. A Calvizzano è stato così possibile ricostruire la
serie ininterrotta dei Parroci, dalla seconda metà del ’500 ad oggi: essa è
esposta ai fedeli e ai semplici curiosi nella sala dove il Museo parrocchiale
fa bella mostra di sé. Che i registri e l’amministrazione dei beni economici
delle Parrocchie fossero ritenuti importanti, se non addirittura fondamentali,
lo rivela il fatto che, durante le Sante Visite Pastorali dei Vescovi, esperti
della Curia diocesana, al seguito dell’Ordinario Visitatore, prendevano visione
di tutto quanto trascritto e vidimavano con metodi di sicurezza documentaria
addirittura le singole pagine dei volumi della Parrocchia, segnalando eventuali
incongruenze. Tali registri sono ancora presenti e consultabili (chiaramente da
mani esperte) nell’Archivio della nostra Chiesa-madre. Apprendiamo, così, che
il primo Parroco di Calvizzano dell’epoca post-tridentina fu Giovanni Antonio Visconte/i,
anche se la serie effettivamente ininterrotta fu iniziata da Cristoforo
Cavallo, che resse la Comunità tra il1589 ed il 1640. Dell’epoca precedente,
abbiamo solo qualche dato disaggregato e non arricchito di cenni biografici.
[14] Se andiamo ad
osservare da vicino il termine “parrocchia”, fin dalla sua origine
tardo-latina, scopriamo che essa deriva da parôchía, chiara
derivazione dal greco paroíkía (composta da para-
[vicino, accanto] e ôíkos [casa]:
propriamente, quindi, ‘abitazione vicina’). Nelle epoche arcaiche, la
voce ‘parroco’ (modulata su ‘parrocchia’) designava già il
responsabile del culto e del servizio divino di una zona del territorio
diocesano, sebbene con sovrapposizioni o termini specifici particolari, legati
a tradizioni locali: curato, prevosto, pievano, preposto, priore, arciprete,
rettore, ecc. Sarà solo dopo il Concilio di Trento (1545-1563) che
attribuzioni, oneri e obblighi del Parroco verranno normati: primo fra tutti,
quello della sua residenza nelle immediate pertinenze della Chiesa
assegnata, ove possibile, in una casa canonica; in mancanza, nelle prossimità,
per garantire una rapida e funzionale reperibilità del Ministro nominato
dall’Ordinario Diocesano, il Vescovo [letteralmente l’ispettore, il
sorvegliante dell’ortodossia e del ministero, come attesta l’analisi del
termine: epí- (sopra) e skopêin (guardare,
vigilare)].
[15] Il cui nome era, all’epoca,
ancora di incerta origine e spiegazione.
[16] Potrebbe
sembrare banale, ma il redattore di queste note ricorda di averlo sentito
affermare dal diretto interessato.
[17] La citazione è
tratta dall’opuscolo già citato di Don Giacomo Di Maria: Una importante
scoperta archeologica, a pagina 8.
[18] Il tomolo era una misura di capacità per
granaglie e materiali aridi in genere, di valore abbastanza vario nelle singole
regioni dell’Italia Meridionale e nei vari periodi storici in cui fu in uso. A
Napoli, nel XVII secolo, un tomolo valeva all’incirca il corrispondente attuale
di 45 chilogrammi. Da segnalare,
comunque, che lo stesso nome stava ad indicare anche un’unità di misura di
superficie agraria, sempre in uso nel Centro-Sud d’Italia, di valore
decisamente ancora più incerto da definire.
[19] Il testo appena
riportato dalla “Platea” del notaio
Marco Antonio Sirleto è andato perduto, insieme con l’intero manoscritto
sirletano, probabilmente bruciato nel periodo del Secondo Conflitto Mondiale.
Il professore Don Raffaele Galiero, che poté averlo fra le mani durante la
prima stesura del suo volume Il mio
Paese, trascrisse l’intero documento, che lo coinvolgeva, in particolare,
per motivi pastorali, in quanto attestava l’antica tradizione locale
calvizzanese della Carità del pane,
comune ad altre simili (si pensi alla distribuzione del pane di Sant’Antonio,
ancor’oggi vivacissima a Padova, ma anche qua e là in Italia e altrove). A
Calvizzano essa fu ripresa quale atto devozionale negli anni
Cinquanta/Settanta, rinvigorita nello spirito del XXX Sinodo della Chiesa
Napoletana degli anni Ottanta, tendente a recuperare la tradizionale
religiosità popolare locale, ma è andata perdendosi alquanto in quelli a noi
più vicini.