Adriano Scherillo: “ho avuto il piacere di conoscere
Otello, era una persona che sapeva dosare ironia e saggezza in modo sublime,
era un aristocratico umile
Alcuni giorni fa ci è pervenuto il commento sopra riportato a firma di Adriano
Scherillo: lo abbiamo evidenziato in prima pagina per cogliere l’occasione di
rinnovare la proposta al presidente della Commissione toponomastica, Lorenzo
Grasso, di dare giusta dignità all’artista scomparso 17 anni fa, dedicandogli
al più presto una strada di Calvizzano e non un vicoletto cieco come intendeva
fare la vecchia commissione. Per fortuna l’iter si arenò
Riproponiamo l’articolo pubblicato circa 6 mesi fa per
far conoscere Otello anche a chi non l’ha mai conosciuto e a chi ne ha sentito
solo parlare
Dedichiamo una
strada a Otello Di Maro, il cantante-poeta simbolo civile di una città dal
volto umano
Otello Di Maro si tolse la vita a
54 anni, con un cappio alla gola, in una gelida vigilia di Natale del ’98. Lo
fece a mezzanotte, con lucida premeditazione. La sua è una storia “della porta
accanto” che merita di essere raccontata. Era un “nero a metà”: frutto dell’amore
di una ragazza di Calvizzano per un militare americano di colore, che aveva
promesso di sposarla a guerra finita, ma non si era visto più. Poco più di 60
anni fa, una ragazza madre e un “negro”, diverso suo malgrado (nessuno gli
avrebbe dato in sposa una figlia), erano segnati a dito; perciò, avevano
vissuto arrangiandosi. Ma Otello studiò da autodidatta, imparò a suonare e
coltivare la poesia e interessi multiformi che spaziavano perfino
nell’occultismo. Negli anni ’70 si esibiva insieme con Mario Musella, il
blusman di “Un’ora sola ti vorrei”. Faceva l’imbianchino e gli piaceva spendere
quel poco che guadagnava. Trascorreva gli altri giorni al biliardo con gli
amici o al tavolo verde, dato che era anche un giocatore di carte. Sui
giornali, il suo suicidio fu archiviato come il caso di un reietto, un
disoccupato, un malato di solitudine. Ma Otello non era così. Dalla raccolta
delle sue liriche e testi musicali, pubblicata postuma a cura di Paolo Ferrillo
e altri amici, emerge l’immagine del poeta di colore che ha conservato in
musica e versi la storia disperata della sua anima e della sua voce blues, come
ripeteva lui stesso. Suonava la chitarra e aveva una tastiera per arrangiare
canzoni. Era uno spirito libero desideroso di giustizia, un cantore metropolitano
incline a fondere la poesia con la musica e a inseguire il mito della vita come
opera d’arte. La morte della madre fu un brutto colpo: venne a trovarsi solo in
“uggiosa misantropia”, dice in una lirica. Da questo nasce in lui la
convinzione di un destino già scritto, oltre il quale esiste solo “l’empio
gesto della disubbidienza”, il suicidio che meditava da tempo. Il giorno di San
Giuseppe del ’98, a un carissimo amico maranese, Peppe Biondi, regalò del
liquore marca “Otello”, dicendogli di brindare quando sarebbe morto. Forse
voleva che la sua vita finisse come un romanzo ottocentesco, con la speranza
che l’aldilà non fosse diviso in bianchi e neri o ricchi e poveri. E così,
trovò il coraggio e il modo di non tornare indietro. Fece scomparire tutti i vestiti
fino all’ultimo calzino; scrisse agli amici di dimenticarlo; lasciò sul
comodino una foto e 10mila lire “Per Caronte”: un’ultima citazione dall’inferno
dantesco, partorita con la rassegnazione di chi sa che il Dio dei giusti, da
lui tanto cercato, non l’avrebbe accolto. Infine, la morte, alla maniera di un
eroe alfieriano, estrema protesta contro un mondo che non gli era piaciuto.
Diversi anni fa, un comitato fece registrare un cd con le sue canzoni e istituì
un concorso di poesia per giovani talenti; l’amministrazione di Calvizzano
manifestò l’intenzione di fare qualcosa in sua memoria, ma poi tutto è finito
nel dimenticatoio.
Perché intitolargli una strada
Ci sono uomini “minori” che fanno grande la storia dell’umanità. Minori
perché vivono sotto il muro, hanno un’ombra timida. Minori perché sono spezzati
in due dal dolore e si trascinano nella vita. Minori perché non li nota
nessuno, né prima né dopo la morte. Eppure, a volte, hanno un cuore grande. E –
come detto – fanno grande la vita.
Otello era uno di questi. Dedicargli una strada vorrebbe dire ricordare la
memoria di quell’uomo
e, con essa, quella di tutto uno spicchio di umanità minore, che ci vive
intorno, di cui non ci accorgiamo, e che quando intravediamo ci disturba, ci
rovina la festa, ci fa piombare, in un colpo, nel groviglio di paure e sensi di
colpa del nostro tempo. Noi vogliamo batterla questa paura di guardare negli
occhi chi è indietro. La miseria, la solitudine, la disperazione bisogna
portarle addosso. Tutti. Bisogna che ci avvolga, come il cappotto grosso del
nonno che fa da nascondiglio ai nipoti. Siamo tutti nello stesso girone. Se
impariamo a guardare in faccia quelli che soffrono, forse possiamo capirli.
Capirci. E sentirli. E farli sentire. Con Otello non l’abbiamo potuto fare, ma
potremmo portare il carico di qualcun altro, se imparassimo a guardare. Per
questo, insistiamo con la proposta di intitolare una strada della nostra
città ad Otello. Inauguriamo una via Otello, e ricordiamoci tutti, così, che è
più faticoso e doloroso e duro essere uomini “minori” che uomini celebrati. Tra
tanti politici, condottieri, scrittori, filosofi, inventori, santi, re, regine,
principi e principesse, fiori, piante, fiumi e capitali europee, troviamo lo
spazio per intestare una strada a un uomo vero, solo, morto povero e per amore.
Quello che non aveva.