Le persone che hanno lasciato un segno nella scuola pubblica calvizzanese e meritano di essere ricordate: Flavia Franco, una docente molto preparata, professionale e umana

 

La prof. Flavia Franco, prima a sinistra, festeggiata dall'ex preside e dai sui ex colleghi 

Anche da vicepreside si è distinta, a differenza di chi, in quel ruolo, si è sentita la nuova padrona delle ferriere

Dopo una vita intera passata sulla cattedra e in mezzo agli studenti dell’Istituto Polo, la professoressa di Lettere, Flavia Franco, andò meritatamente in pensione nel 2016. Ha educato, formato e cresciuto intere generazioni: i suoi allievi se la ricordano per il suo accento veneto (è nativa di Verona), ma soprattutto per la sua grande preparazione e la dedizione al mondo della scuola. La preside di quel periodo, Armida Scarpa, commossa, volle festeggiarla insieme a tanti colleghi di Franco, nel giorno del suo ultimo collegio dei docenti che si svolse a giugno 2016.

E’ una bella pagina di letteratura il “Viaggio” nella media Polo della professoressa in pensione Flavia Franco


Un breve amarcord: quando le aule erano dislocate nella canonica della chiesa, nell’Istituto delle suore di via Ritiro e in alcuni appartamenti di cui uno sulla strada che da Marano porta a Villaricca. Chi ha vissuto quel periodo e leggerà questo breve racconto proverà sicuramente grandi emozioni

 Mi sentii persa, ma il sorriso e le parole di Aida, più di qualsiasi bevanda bollente, mi trasmisero un’immediata sensazione di calore e, fra noi, fu subito amicizia, amicizia vera”

Oggi sembra essere una mattinata come tante altre: il telefono squilla nella guardiola, Ciro fischietta, tirandosi dietro il carrello delle scope, Giovanni, chiuso nel suo cappotto blu, fuma l’ennesima sigaretta e “i nonnetti civici” , paletta sotto il braccio e sguardo attento, si apprestano ad affrontare la loro quotidiana battaglia.

“Professore buongiorno. Ho lavorato a terra nella stanza della Preside (Armida Scarpa, ndr) e ho tolto la polvere…”, sì è proprio una giornata come tante altre.  L’odore penetrante dell’alcool, profuso a piene mani sulla tastiera, sul monitor, sulla cornetta del telefono, sulla scrivania, sulle carte, penetra nelle narici e ti dà la carica per incominciare bene la giornata. Giovanni (bidello in pensione, ndr) ha finito di fumare la sua sigaretta e si incammina borbottando verso la segreteria, pensando alle centinaia di fotocopie che lo attendono, Ciro ha riposto le scope e deodoranti e ha preso posto dietro al suo banchetto, a destra della porta della presidenza, segnale chiaro ed inequivocabile che la preside non è ancora arrivata.

Lo guardo mentre mi racconta, per l’ennesima volta, che “su, dove abita suo fratello, fa la neve” e che gli alunni sono più rispettosi e che lui, domani, si metterà in malattia perché tutti gli altri bidelli fanno lo straordinario e lui no.

Povero Ciro! Mi domando come faccia a stare seduto, grande e grosso com’è su quel banchetto, da cui, come un vigile sulla pedana, dirige con zelo tutto il traffico in entrata e in uscita.

Entro in sala docenti, è ancora deserta. Sul tavolo, da un lato, il registro delle firme, dall’altro quello delle sostituzioni, rigorosamente chiuso perché non è bello, di primo mattino, vedere dove andrai a fare una supplenza; le sedie, una qui e una là, sono testimoni di una fuga precipitosa, fra annunci vecchi e nuovi attaccati alle pareti.

Mi avvicino al tavolo e, più per abitudine che per altro, apro il registro delle firme.

Che strano! E’ un gesto che faccio sempre eppure solo questa mattina mi sembra che i nomi nuovi, in elenco, siano aumentati.

“Te ne sei accorta, finalmente!”.

Sono anni che ti riprometti di presentare la tua bella domanda di passaggio alle superiori, perché vuoi rimetterti in gioco, perché vuoi tornare a cimentarti con Seneca e Platone, con Orazio e Callimaco, perché vuoi nuovi stimoli, perché, ormai, sei diventata “una delle vecchie” di questa scuola.

E poi?

E poi, immancabilmente, la domanda non la presenti.

Perché? Per pigrizia, per comodità, per timore o perché qui ci stai bene, nonostante tutto.

Forse è questa la verità.

Il mio viaggio con Marco Polo è iniziato più di vent’anni fa, in una fredda e piovosa giornata di novembre, quando, al rientro dal congedo per maternità, mi trovai, non so come, nel cortile di don Peppino Cerullo, dove all’epoca era ospitato il corso B.

Ricordo che qualcuno, vedendomi spaesata e intirizzita, mi mise in mano una tazza di tè bollente. “Ciao, sono Aida, la tua collega di francese , benvenuta tra noi! Questa è la tua aula”.

La mia aula? Vidi solo tre grandi stanze, comunicanti tra loro, che si affacciavano sul giardinetto della canonica, fredde e buie, con dei vecchi ed enormi banchi di legno, il gabinetto all’esterno e un vecchietto secco secco dai capelli bianchi che vendeva le patatine agli alunni e, all’occorrenza, fungeva anche da bidello.

Mi sentii persa, ma il sorriso e le parole di Aida, più di qualsiasi bevanda bollente, mi trasmisero un’immediata sensazione di calore e, fra noi, fu subito amicizia, amicizia vera

Il viaggio poi è continuato alla “casetta di Biancaneve”, un vecchio appartamento dove un’aula era in cucina (c’erano ancora le piastrelle al muro), un’altra in soggiorno e l’altra nella camera da letto, una sull’altra, e il bagno aveva una bellissima vasca di ceramica rosa.

E poi ancora un altro appartamento, una casa “di ringhiera” sulla strada che da Marano porta a Villaricca. Là ci sentivamo più fortunati perché almeno c’era la sala docenti, la sala da pranzo dell’appartamento, dove, attorno ad un enorme tavolo, ci si ritrovava a correggere i compiti, a bere un caffè o semplicemente a riscaldarsi, prima di affrontare, ombrello alla mano, il cambio d’ora sul pianerottolo all’aperto.

E poi le aule di via Ritiro, ospiti delle suore, dove solo il sorriso angelico di suor Luciana riusciva, in parte, a mitigare il nostro isolamento.

E poi…e poi la Scuola, promessa, attesa, desiderata, agognata.

Ricordo il mio primo giorno. Anche per me fu un primo giorno. Per la prima volta vidi, tutti insieme, volti che non avevo mai visto o visto di sfuggita nel corso di improvvisati, interminabili, caotici, affollati collegi docenti: erano i miei colleghi.

Mi avvicino alla finestra, apro i vetri e l’aria frizzante di questa mattina di fine novembre mi mette un brivido. Richiudo. Il caseggiato di fronte, quadrettato, mi richiama alla mente le parole di un Preside quando, dopo l’ennesimo furto, fu costretto a far mettere grate di protezione alle finestre e alle porte: “una scuola non dovrebbe avere grate e cancelli, dovrebbe essere sempre spalancata”.

E noi in questi ultimi anni abbiamo cercato di aprirla, di farne un luogo accogliente e stimolante, inventandoci spazi, rincorrendo idee, liberando la fantasia, accettando di cambiare e di metterci in gioco in ogni momento. Forse è tempo di toglierle queste grate!

Un vociare confuso, sempre più forte, un’onda multicolore che disordinatamente sale le scale e si riversa correndo nei corridoi. E’ suonata la campanella.

Per fortuna, è ora di ricominciare.

Il mio viaggio continua.

L’avventura mi aspetta là, dietro la porta della mia aula. 

La nostra rapida riflessione

Sembra la fotografia di una scuola di paese dell’800. Eppure siamo alla fine degli anni ottanta, inizio anni novanta, quando a qualche chilometro di distanza, a Chiaiano (quartiere napoletano ai confini con Marano e Mugnano), per fare un esempio, c’era già una scuola all’avanguardia con piste di atletica, Palazzetto dello Sport e ampi spazi verdi. Qui, invece, sembra che non sia stata presa in debita considerazione l’importanza della scuola nella società. 

 

Articolo del 1990 apparso sul quotidiano "Il Giornale di Napoli-Ultimissime" a firma di Mimmo Rosiello, dove si parla della media Polo


 

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