"Nel corso degli ultimi anni le domande dei
nostri ragazzi si sono moltiplicate. Ma le risposte sono state spesso banali e
insufficienti. Perché noi adulti non siamo stati per loro un punto di
riferimento"
Stamani mi sono svegliato triste, molto triste. La notizia
della tragica morte di Davide mi ha lasciato sgomento e ha scosso profondamente
la comunità calvizzanese, paese natale del giovane 27enne e dei suoi genitori, persone
stupende, grandi lavoratori, e quella mugnanese, dove Davide abitava. Sua mamma
Anna Ferrillo è una nota stilista: il
suo Atelier di abiti da sposa, sito al confine tra Calvizzano e Mugnano, non ha
nulla da invidiare ai laboratori più conosciuti d'Italia.
Una vita che si spegne
troppo presto toglie un po’ di futuro e di fiducia a tutti. Spesso, in questi casi, viene chiamato in causa
il malessere dell’adolescenza, un tema difficile da affrontare: si rischia di
cadere nella retorica più scadente. Allora ho pensato di dare il mio
contributo, prendendo a prestito la parte finale di un bellissimo articolo,
intitolato “Il malessere dell’adolescenza”, pubblicato venerdì scorso
nella pagina della Cultura del noto quotidiano “la Repubblica”, a firma di
Michela Marzano, filosofa, scrittrice ed ex politica. (Mi.Ro.).
“…Sono sempre più
numerosi i ragazzi che faticano a sapere chi sono e dove vogliono andare, e
spesso e volentieri si rinchiudono all’interno di sintomi devastanti. Come se
solo il sintomo potesse raccontare loro, se non proprio ”chi sono”, almeno “che
cosa sono”: anoressici, bulimici, depressi, ansiosi, autolesionisti.
Chiunque, oggi, si sente
in dovere di dire la sua sul disagio dei giovani, convinto di sapere
esattamente perché si ammalano o non vogliono andare a scuola o sono
aggressivi, violenti- non è colpa loro, dicono alcuni: c’è stata la pandemia, c’è
stato il lockdown, ci sono i social; è difficile pontificano altri: i ragazzi
non si impegnano, non credono più a nulla, non hanno nessun senso del
sacrificio. Ma quali certezze, punti di riferimento o esempi noi adulti siamo
stati capaci di dare loro? In tanti costruiscono un falso sé, e passano il
tempo a cercare di diventare ciò che immaginiamo di dover essere per ottenere l’amore
e il riconoscimento degli adulti (genitori, educatori, insegnanti). Fanno
fatica a stare dentro i modelli talvolta estremamente rigidi e binari che
vengono proposti loro, si sentono fluidi e rifiutano le etichette; ma poi,
quando sono travolti dalle emozioni, non sanno come contenerle, e sempre più
spesso si attorcigliano su loro stessi.
Vorrebbero poter capire
come convivere con le proprie fratture in un mondo in cui nessuno sembra più
avere il diritto di essere fragile, ma l’unica risposta di fronte alla quale si
trovano è la patologizzazione dei propri disagi, con diagnosi che talvolta
accolgono con sollievo – almeno hanno un quadro all’interno del quale
iscriversi, anche se il quadro è quello della patologia: sono borderline o
schizofrenico o anoressica. Una parvenza di identità che, dell’identità, non ha
nulla. Anche perché non possono essere gli altri a dirci chi siamo – lo dobbiamo
scoprire noi, pian piano, anche se a tratti è faticoso e doloroso. A meno di
non voler tornare indietro nel tempo, quando a definire l’identità di ciascuno
erano la tradizione, la religione, il potere politico o il pater familias.
Identità eterodirette che
fanno a pugni con ogni forma di autonomia personale”.