Curiosando nei vecchi documenti di Marano: nonostante il testamento ai monaci non toccò niente

 

Chiesa Vallesana
Le storie che lo scrittore Peppe Barleri inviava al periodico L’attesa

Novembre 1753. Il dottor “fisico” Antonio Giglio abita sulla Starza (Piazza Garibaldi). E’ avanti con gli anni ed è gravemente malato. Perciò decide di fare testamento, perché teme che, dopo morto, possano scoppiare liti su questioni di eredità tra i propri congiunti. Cosicchè, dopo essersi raccomandato alla SS. Trinità, alla beata Vergine e a San Castrese protettore di Marano, e dopo aver stabilito, nel testamento, che il proprio corpo dovrà essere sepolto nella chiesa della Madonna di Vallesana dai Padri Agostiniani, nomina usufruttuaria dei suoi beni la moglie Laurantonia Catino. E dispone che, dopo la morte della donna, tutti i beni passino alla chiesa di vallesana. Tra i beni vi sono diverse case ammobiliate e giardini della Starza, uno studio con molti libri e una cassettina contenente 300 ducati, una collana d’oro, 9 perle, 5 anelli d’oro, 8 collane di corallo rosso, un paio di orecchini a castagna con perle e 12 pezzi d’argento. Detta cassettina si trovava in un’altra cassa più grande, contenente capi importanti di vestiario. L’anno seguente, il 6 novembre 1754, don Antonio (che nel frattempo si era recato a Pozzuoli per curarsi meglio) muore. E poiché è morto fuori Marano, non viene sepolto come da lui stesso stabilito, a Vallesana, ma nel monastero di San Giacomo dei Carmelitani, a Pozzuoli. Da qui la rivalsa di alcuni parenti sugli Agostiniani, che, a morte della signora Laurantonia, sarebbero dovuti entrare in possesso dei beni del defunto. Il loro parente, dicevano, non è stato sepolto a Vallesana, perciò non possono pretendere nulla. Se il testamento, aggiungevano, già non è stato rispettato in una sua parte importante, non può essere rispettato in tutto il resto. E, tanto per far capire come la pensavano, gli eredi organizzarono, nello stesso giorno  del decesso, un’irruzione a casa di don Antonio per portare via soldi e preziosi. Per l’occasione, Giuseppe Giglio (fratello del defunto), alle ore 13.00 in punto, giunge alla Starza insieme ad altri sei loschi figuri e, dopo aver dato calci alla porta d’ingresso, la sfonda ed entra dentro la casa alla cui guardia era stata lasciata Angela Catino, nipote ( per parte di moglie) del dottore defunto. I sette, dopo essere entrati in casa, incuranti della presenza della custode e indifferenti al fatto di essere stati visti e riconosciuti da altre persone, si dirigono verso la cassa contenente vestiari, contanti e preziosi. E, trovandola chiusa a chiave, fanno leva con un asse di ferro, l’aprono e fanno man bassa di quanto trovano. Inutilmente, padre Filippo Magliani, priore del monastero degli Agostiniani, denuncia il furto e gli autori. Dopo 5 anni di udienze, i giudici ammettono che gli Agostiniani non avrebbero dovuto pretendere alcuna restituzione da Giuseppe Giglio, non solo perché nessuno poteva provare che effettivamente nella cassa c’erano ancora, a un anno dal testamento quei soldi e preziosi che i monaci vantavano, ma soprattutto perché effettivamente la chiesa di Vallesana non poteva più sperare di entrare neppure in possesso degli immobili della Starza, perché, per averli, bisognava che il corpo del dottore fosse stato sepolto in quella chiesa. Cosa che in effetti non era successo. Così, nonostante un preciso testamento, i parenti del povero Antonio Giglio, il quale per salvare la sua anima aveva deciso di donare tutti i suoi averi ai monaci, riuscirono a spuntarla senza preoccuparsi minimamente della sorte della loro anima.                       

 

Visualizzazioni della settimana