Marano, la parabola discendente del sindaco più longevo di Marano: dal 30 gennaio agli arresti domiciliari con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa



L’on. Andrea Caso dei 5 Stelle (nel 2011 si candidò con “Città in Movimento”, lista che appoggiava Mauro Bertini sindaco): “La magistratura vada avanti, siamo con lei”. Condividiamo: "la giustizia faccia il suo corso e chi ha sbagliato paghi". Il sindaco Visconti: "sono un garantista, aspettiamo i tre gradi di giudizio"

Mauro Bertini è stato Primo cittadino dal 1993 al 2006, poi si è classificato al terzo posto nel 2011, ha sfiorato la vittoria al ballottaggio nel 2013, mentre alle amministrative del 21 ottobre 2018 si è piazzato al quarto posto

1991-2001, un decennio della vita di Marano descritto dall’ottima penna del giornalista-scrittore Antonio Menna


Articolo apparso sul periodico “La Voce della Campania” di settembre 2002

Diecimila metri quadrati di terreno fertile, sottratti alla speculazione edilizia e alla lunga mano dei palazzinari, e donati a sedici pensionati che, a spese del Comune, coltivano un orto e si misurano, anziani e speranzosi, con la vita che nasce, con semi e piante, con germogli e frutti.
Li abbiamo chiamati orti sociali ma sono, nel loro piccolo, una bandiera: una minuscola asta confiscata nel terreno della legalità. Come gli astronauti su un pianeta conquistato, abbiamo montato un cartello: “Comune di Marano, orti sociali”.
Due pali nella terra e abbiamo disegnato un confine: lì sarebbero cresciuti palazzi abusivi; adesso ci sono gli orti di sedici pensionati che non avrebbero potuto comprare un pezzo di terra e che lo hanno avuto in regalo dal Comune per coltivare ortaggi e loro stessi.
Poco più in là, c’è un altro simbolo: due palazzine di cemento. La mano degli speculatori non è stata fermata in tempo. Ma la legge ci è arrivata ugualmente. Quindici appartamenti abusivi, sequestrati dal Comune, acquisiti al pubblico patrimonio e destinati ad alloggi popolari. Una graduatoria, cinquecento domande di famiglie povere, quindici fortunati: un altro pezzo di un pianeta riconquistato; un altro pezzo di territorio restituito alla civiltà.
Questa è Marano, oggi. Marano, una città come tante, una città diversa dalle altre. Marano, il crocevia della criminalità, il luogo dove Riina incontrava Nuvoletta e coordinava l’intreccio perverso tra mafia e camorra. Marano, il luogo da cui – secondo la ricostruzione del pubblico ministero – Armando D’Alterio – partirono alla volta del vicino Vomero, i killer di Giancarlo Siani, per uccidere lui e con lui il coraggio della verità.
Insomma, Marano città simbolo: 60mila abitanti, una crescita urbanistica scriteriata, una collina saccheggiata dal cemento, un tessuto urbano distrutto dalla cattiva politica.
Marano, il luogo della rinascita. Dal ’93 governa un sindaco comunista. Un sindaco “apolide”, come dice lui, un sindaco fuori dai poli, amato dalla gente, odiato dai partiti. Anche dal suo. Dal ’93 governa un sindaco che ha avuto coraggio e incoscienza, tenacia e resistenza. Un sindaco simpatico e antipatico, onesto e discusso, folle e concreto. Un sindaco che, un pezzo per volta, sta vincendo la sua battaglia.
Ma Marano non è Porto Allegre, è troppo vicina a Napoli ed è difficile che diventi di moda: poco esotica, troppo concreta. Un simbolo ingombrante, anche per una sinistra che fatica a valorizzare le sue esperienze migliori; che sembra aver paura di chi ha qualcosa da giocarsi fuori dalla palude della partitocrazia. Marano, che torna a essere confinata, dimenticata. Una rivoluzione qua dietro, troppo vicina per essere vera; troppo vera per essere considerata.

SI VOLTA PAGINA
Partiamo dal 1991 quando i commissari prefettizi, arrivati dopo lo scioglimento per mafia trovarono un Comune allo stremo: finanze vicino al crac, servizi all’anno zero, disordine, caos; tre dirigenti della Prefettura gettano la spugna, uno dopo l’altro si dimettono in rapida successione.
Nel novembre del ’93, dopo 24 mesi di commissariamento, arrivò il momento delle elezioni. La vecchia politica, ancora frastornata dal ciclone Tangentopoli, rifece timidamente capolino. La Dc si presentò alle elezioni candidando a sindaco un cavallo di razza: Antonio Cesaro, ex sindaco negli anni Settanta e scomparso alcuni anni fa. Cesaro passò facile il primo turno e arrivò al ballottaggio, ma prima che si votasse per il secondo turno gli arrivò un avviso di garanzia per una inchiesta legata agli anni della collusione tra politica e affari. Facile, a quel punto, per il suo sfidante vincere le elezioni e raccogliere la scommessa del cambiamento.
Ma chi era questo sconosciuto che aveva superato a sorpresa il primo turno, con una percentuale risicatissima e si preparava a governare, da sindaco, una fase delicata della città? Il suo nome è Mauro Bertini, il suo accento è toscano (è nato a Gambassi terme in provincia di Firenze ed è a Marano dal 1968), la sua professione è – come ama dire con una punta di civetteria – imbianchino (in realtà guida la Comunità artigiana, una impresa edile di pittura molto particolare, dove i soci si dividono in parti uguali, dal primo all’ultimo, tutti gli utili); il suo partito è Rifondazione comunista. Un partito che ha fondato, ha costruito dal nulla e che ha portato a vincere e stravincere, con punte elettorali del 15%.
Nel ’93 Bertini, al secondo turno, si aggrega con una lista civica cattolica (“Organizziamo la Speranza”) e il Pds. Un cartello di centrosinistra prima che l’Ulivo nascesse a livello nazionale. Con questa alleanza stravince il ballottaggio (84 per cento dei voti) e diventa sindaco.
I primi giorni di lavoro lasciano già il segno: Bertini fa una giunta di persone scelte direttamente da lui. Sei assessori, di provenienza culturale vicina ai partiti della maggioranza , ma voluti da lui. La giunta del sindaco: il primo segno che qualcosa era cambiato. I partiti mugugnano, non sono abituati, ma l’esperienza va avanti.
Bertini avvia il risanamento del bilancio, recupera 9mila evasori totali dei tributi comunali, programma la spesa dei primi soldi disponibili, tirando fuori dai container gli alunni della scuola materna e provando a dare a tutti una scuola degna di questo nome. Si organizza la rinascita. Ma i partiti continuano a mugugnare. Il Pds, in particolare, non perdona al sindaco-dittatore di fare di testa sua.
“Non si confronta con noi, non c’è democrazia”, dicono i consiglieri della Quercia che, dopo due anni, bocciano il bilancio e mandano a casa il primo cittadino. Tornano i commissari per sei mesi. Ma a novembre ’96 si vota.
Questa volta lo scontro è tutto interno alla sinistra. Il Polo si presenta compatto e candida un cardiologo fuori dai giochi della politica, Ciro Ciotola. La sinistra presenta quattro candidati a sindaco. Tra questi, Bertini, sostenuto solo da Rifondazione, Verdi e una lista civica (PDM). Il Pds candida Pasquale Cavallo, chirurgo, nome noto in città. La campagna elettorale è una specie di guerra: Bertini sale su un camioncino e fa comizi in tutte le zone della città. In ogni angolo di Marano, intorno alle diciotto arriva il furgoncino, si piazzano le bandiere, attacca l’inno, Bertini sale sul cassone e con un megafono comincia la sua arringa: un’ora, un’ora e mezza di invettive contro la camorra, la partitocrazia, gli affaristi, i palazzinari. Sotto il camion ci sono solo i compagni di Rifondazione; la gente non scende. Qualcuno origlia dalle finestre: dai motorini di passaggio, con due tre ragazzi in sella, arrivano insulti e pomodori. La città, dopo un veloce respiro di rinascita, sembra ripiombata nei suoi anni più cupi.

QUEL PLEBISCITO SILENZIOSO
Eppure quando si aprono le urne e si contano i voti, Bertini fa il miracolo: la sua coalizione prende un pugno di voti ma lui, da solo, supera il 30 per cento. Un plebiscito silenzioso, un voto sottotraccia della città nascosta che premia il coraggio, l’audacia, la tenacia, la resistenza.
Il ballottaggio è tra Bertini e il candidato Pds Cavallo e lo spoglio delle schede la notte del secondo turno regala alla città una scena da film comico degli anni Cinquanta. Si contano i voti, il Pds crede di aver vinto, dalla finestra del Comune arriva una notizia in tal senso. Scendono tutti in strada, fanno un corteo, tirano fuori dalla stalla un cavallo e un asino; il cavallo è il candidato vincente, l’asino è Bertini. Inneggiano al cavallo, dileggiano l’asino; hanno vinto e non stanno nella pelle. Ma dopo mezz’ora arrivano i risultati ufficiali: ha vinto Bertini, per 101 voti. Sul corteo, scende un’aria mesta. A qualcuno viene l’idea di bastonare l’asino a sangue, per vendetta. Ma Bertini ha vinto e l’avventura può cominciare.
E’ a seconda volta, per Bertini, le cose sono più semplici: ha una maggioranza più solida (nove consiglieri su diciotto sono di Rifondazione) e il metodo dei sindaci-condottieri è stato già digerito da alcuni partiti. Il sindaco fa la sua giunta e governa. I primi anni sono faticosi, la gente ha tante aspettative ma ci sono le finanze da risanare, le tasse da pagare e la macchina non riesce a produrre risultati. Dopo due anni si vedono poche cose, la gente è scontenta, sembra delusa. Anche i partiti chiedono maggiore velocità, più incisività. Bertini invita alla pazienza, ma non è facile. Ci sono screzi, polemiche, ma alla fine tutto si tiene perché l’obiettivo comune è cambiare la città.
Dopo tre anni di sacrifici, di bollette salate, di lotta all’evasione, di spesa bloccata a causa del dissesto finanziario e dei debiti, torna il sole. Bertini si lancia in un programma di fine consiliatura che a molti sembra un decalogo da pazzo scatenato: ottanta cantieri, opere pubbliche, servizi sociali. Un rosario di iniziative che finalmente, dopo gli anni magri, deve cambiare il volto della città. I consiglieri comunali sono scettici ma lo seguono. Qual è l’alternativa?
Cominciano i lavori: si apre il cantiere per il palazzetto dello sport, si aprono quelli per il liceo scientifico e il nuovo Magistrale, lavori partono a Corso Europa per i marciapiedi e la strada, a San Rocco per la piazzetta, a Corso Umberto per il rifacimento dell’arredo urbano, a piazza Plebiscito per la nuova rotonda, alla scuola Socrate per il nuovo auditorium, alla scuola Alfieri per il teatrino, a via Adda per piazza Libera, a via Piave per una villetta comunale con campi di calcio, a via Mallardo per il rifacimento del rione e una villetta, a Torre Caracciolo per un giardino attrezzato.
Insomma, i lavori partono, la città è in fermento, la gente aspetta, i politici pensano: “Bertini è un pazzo”. Contemporaneamente ripartono anche i servizi. Viene attivata la refezione scolastica (che mancava da anni), i buoni libro vengono dati a tutti i ragazzi di medie e superiori, ritornano le vacanze estive per minori e anziani, la villa del Ciaurro viene riempita di eventi durante tutta l’estate, vengono assunti 25 vigili urbani.

SALARIO SOCIALE & DINTORNI
Cambia volto anche l’assistenza sociale. Sono io (Antonio Menna) a seguire la trasformazione di questo settore: assumiamo psicologi, sociologi, assistenti sociali. Trasformiamo quello che era un centro di erogazione di sussidi ad amici e parenti in un luogo di intervento sul disagio. Facciamo assistenza farmaceutica, economica, assistenza domiciliare agli anziani allettati, assistenza materiale ai disabili nelle scuole. Organizziamo un servizio di trasporto dei disabili nelle scuole. Organizziamo un servizio di trasporto dei disabili ai centri di riabilitazione, creiamo – primi in Italia – un salario minimo per uscire dall’indigenza per le famiglie colpite da improvvisa povertà e nasce, dal nulla, un centro sociale per anziani chiamato Trovamici. Pochi mesi e si tagliano i primi nastri: si inaugura il Palamarano (il palazzetto dello sport), aprono le scuole, strade e piazze non si riconoscono più, ogni quartiere ha il suo impianto sportivo aperto e libero, i servizi sociali contattano il disagio con personale qualificato e strumenti operativi. Quel “pazzo” di Berini ce l’ha fatta: in pochi mesi Marano è un’altra città.

L’OMBRA DELLA CAMORRA
Il consenso di Bertini è alle stelle: basta girare le strade e sentire la gente. Dal Parlamento arriva la notizia che i sindaci con alle spalle due mandati di cui uno dimezzato possono ricandidarsi per il terzo. E’ il caso di Bertini, che può ripresentarsi. La cosa getta nel panico i partiti: se gioca Bertini, non c’è partita.
Al sindaco del rinnovamento accade un incidente: di prima mattina, all’improvviso si presentano nella sua azienda, a casa sua, nel suo ufficio al Comune, decine di carabinieri con l’obiettivo di perquisire, controllare, acquisire. Sequestrano agende, atti, delibere, documenti, bloc notes, perfino una foto del sindaco col figlio di Che Guevara. Alla fine consegnano a Bertini un foglio: un avviso di garanzia. Ipotesi di reato: collusione con la camorra. Un pentito avrebbe detto che il sindaco comunista, il sindaco del rinnovamento, il sindaco della rinascita, è funzionale agli interessi del clan Nuvoletta.
In città la notizia si diffonde in un baleno: la gente sorride. Bertini camorrista? Non ci crede nessuno: nei bar e tra i “guaglioni” di strada la notizia viene accolta con un misto di ironia e soddisfazione. Ma chi conosce Bertini alza le spalle e pensa a Enzo Tortora. Intanto l’amministrazione va avanti: come per esorcizzare l’incubo, si procede facendo finta di nulla. Gli inquirenti indagano, la coscienza è tranquilla, speriamo bene. Di tanto in tanto qualcun si chiede a che punto è l’inchiesta. Non se ne sa nulla. Alla fine il commento è sempre lo stesso: la verità deve venire a galla, nessuna paura. Con questo groppo alla gola si va verso le nuove elezioni.

IL TERZO MANDATO
Maggio 2001, Bertini si ricandida, sostenuto da Rifondazione, una lista civica e i Democratici (che prendono il posto dei Verdi, i quali preferiscono l’Ulivo). Contro di lui un centrodestra inesistente (Forza Italia non riesce nemmeno a presentare la lista) e un centrosinistra agguerrito che, tutto unito, converge su Giuseppe Spinosa, fratello dell’ex sindaco democristiano Antonio, segretario della sezione locale del Ppi e nemico acerrimo di Bertini.  
La campagna elettorale è la solita guerra: pomodori sui camioncini di Bertini, minacce, comizi con la scorta. Il giorno del voto, la tensione si taglia a fette. Dalle urne esce un risultato scontato: è ballottaggio tra Bertini e Spinosa e la campagna elettorale viene prolungata di due settimane; quindici giorni di veleni, di volantini anonimi che riportano stralci della dichiarazione del pentito di camorra, di foglietti senza firma che attribuiscono a Bertini di tutto e di più. Insomma, colpi bassi.
Il giorno del ballottaggio il centrosinistra fa i conti sulla carta e decide: abbiamo vinto, Spinosa è sindaco. La gente sta ancora andando a votare, le urne sono chiuse ma loro sono sicuri: due più due fa quattro e abbiamo vinto, ripetono di seggio in seggio. Verso le ventuno, prendono tutti appuntamento in un ristorante per festeggiare la vittoria sicura. Piazzano anche le batterie di fuochi d’artificio: Bertini finalmente è fatto fuori. Comincia lo spoglio e qualche entusiasmo si smorza: i primi numeri sono allarmanti. Il sindaco comunista vince anche nelle zone dove dovrebbe perdere. Sezione dopo sezione, i dati consegnano un verdetto che invece di accendere i fuochi spegne tutte le speranze.

LA NOTIZIA
Viene sussurrata come una indiscrezione ma viaggia di bocca in bocca. Pare che l’inchiesta su Bertini si sia conclusa: non è un camorrista. Noi lo sapevamo già. Qualcuno non si arrende e continua a insistere. Il senatore Emiddio Novi di Forza Italia dedica tutto il suo tempo a Marano e produce interrogazioni sul camorrista Bertini. Una di queste era stata presentata al procuratore Agostino Cordova in persona, durante un’udienza riservata alla commissione antimafia.  E Cordova ha risposto: “ su Marano abbiamo indagato tre anni: non c’è nulla di nulla”. Pare che Novi non si sia convinto. E con lui i suoi compagni di partito, tra cui da poco va annoverato anche Giuseppe Spinosa, che, da candidato sindaco dell’Ulivo, dopo la trombatura è diventato capogruppo consiliare di Forza Italia.
“Quei personaggi sono strani, qualcosa ci deve essere”: non sembra possibile che una città come Marano si possano vincere le elezioni senza essere collegati al malaffare. E allora giù esposti su esposti. Ormai la procura della Repubblica di Napoli deve avere una intera stanza dedicata agli atti deliberativi del Comune di Marano: non c’è foglietto che non venga inviato lì. E i carabinieri indagano, fotocopiano, interrogano. Ma Bertini (e noi con lui, un po’ incoscienti, un po’ fiduciosi), va avanti: ogni martedì, giunte di lavoro. Tutti gli assessori a pianificare insieme, il lavoro della settimana; ogni mercoledì, le delibere. Tutti i giorni al Comune. L’attività è a pieno regime. Parte il cantiere per lo stadio comunale, nascono gli orti sociali, altre 25 persone saranno assunte nei servizi sociali, nascerà la prima Biblioteca per l’infanzia della Campania, si programmano, tra patto di stabilità e finanze risicate, nuovi progetti, nuovi interventi, ancora una lenta, giornaliera resurrezione, che per il 2006 dovrà consegnare ai cittadini una Marano ancora più moderna.
Non sarà Porto Alegre ma la rivoluzione striscia anche nei vicoli di questa cittadina alle porte di Napoli.                

E dopo alcuni anni di tensione all’interno del partito di Bertinotti (all’epoca era il segretario), Bertini, agli inizi del 2004, divorzia da Rifondazione e approda nei Comunisti italiani









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