Le
storie che lo storico Peppe Barleri inviava al periodico “L’attesa”
Il territorio collinoso di Marano, un tempo, faceva da
richiamo a numerosi gruppi di caprai che, con l’immancabile “pirocca” (il lungo
e nodoso bastone), si inerpicavano dappertutto insieme alle loro instancabili
capre. Abbastanza noti fin dal Seicento, i caprai maranesi non sempre erano
stinchi di santo, anche se i più litigiosi erano quelli di una piccola comunità
proveniente da Acerra, che si era stabilita a Marano a metà Cinquecento. Erano,
questi, i “Cerretani” (Acerrani). E guai a farseli nemici. Cerretano era
Ascanio Cappiello, guardiano delle capre di una tale signora faustina Pinelli,
ucciso nel gennaio 1623 dai contadini di Antonio Maisto, in una lite sorta a
seguito dello sconfinamento delle capre sui terreni che il Maisto aveva
interdetto ai caprai. L’anno prima era toccato a Matteo Balsamo, capraio del
Duca della Palazzola, assaggiare le “ mazze nerbose” dei servitori del Maisto,
pronti a menar mani contro coloro che se ne infischiavano del divieto di
pascolare sui terreni altrui. Per secoli, altri Maisto le hanno suonate ad
altri caprai e viceversa. Fino al luglio del 1843, quando il Decurionato
(assimilabile all’odierno Consiglio comunale), finalmente insorse contro la
cattiva abitudine di considerare il territorio maranese “pascolo comune di tutte le capre della capitale e dei Comuni limitrofi…senza
che s’abbia a chi dirigersi per essere inteso e protetto…perché gli agenti
comunali vengono posti in burla dai caprai e se occorre anche minacciati dalla
ribalda schiera, sicura di trovare protezione presso persone di riguardo”.
Si pensò, perciò, di regolamentare il numero degli
addetti alle capre e di ridurre a dieci il numero degli animali che ognuno poteva
possedere. Del resto “ la maggior parte
delle capre appartengono a signori napoletani e sono tenute a pascolo da capra i
maranesi”.
Fu deciso, allora, che su tutto il territorio maranese
non si sarebbero dovuto vedere più di sessanta capre e sei caprai. Tutti gli
altri, a partire dai forestieri, dovevano andarsene per sempre. I primi a
essere espulsi furono Antonio Manzo e i figli di Sebastiano Rocco. Gli ammessi
a pascolare furono: Nicola Mancino, Mauro Casale, Pasquale e Antonio
camerlingo, Antonio Staiano, Paolo De Liso. Inutile dire che né a manzo né ai
Ruocco la cosa andò giù. E si arrivò a
una lunga serie di faide e vendette incrociate che terminarono solo quando il
Decurionato, agli inizi di agosto 1845, decise di cedere “agli incessanti pianti di Sebastiano Ruocco” e permise anche a lui
di “condurre a pascolo animali caprini
con espresso divieto di affidarli ai figli, stante la di costoro malvagia
condotta”. In realtà, come era prevedibile, il Ruocco da quel momento fece di testa propria e allevò
oltre 25 capre, facendosi aiutare proprio dai temuti figli. Per la mancata
osservanza dell’ordinanza, il Decurionato diede ordini precisi alle Guardie
Campestri di arrestare i Ruocco e di sequestrare le loro capre. In caso di
resistenza, avrebbero dovuto usare le armi senza pietà. Il 22 agosto, in
contrada Viticaglia, l’ordine di far fuoco stava per essere eseguito. Ma i
Ruocco si arresero appena in tempo per evitare il peggio. Dieci anni dopo,
uscito dal carcere e ridotto all’elemosina, Sebastiano chiede un atto di
clemenza al Decurionato. Questo decide di riabilitarlo e di dargli 15 capre in
omaggio “al solo oggetto di dargli da vivere, a condizione che conduca le capre
a pascolo egli medesimo”. Da allora di lui e dei suoi figli non si sentì più
parlare.