“Eravamo dei ragazzi spensierati e a volte scapestrati, ma felici”: in uno spigolo di via Ritiro, agli inizi degli anni ’80 sorse la “Little Star”, prima e unica discoteca a Calvizzano

Via Ritiro, in questo vecchio deposito c'era la "Little Star" 

17 anni, la prima sfida , come sempre folle, come sempre visionaria, come sempre al di fuori del contesto socio culturale locale, come sempre aperta alla più ampia inclusione… e come sempre senza fondi: Una discoteca a Calvizzano.
Se è vero che non importa quando possa essere irrealizzabile quello che ci si propone, ma quanto ci credi e quanta voglia ci si mette nel realizzarla, il “LITTLE STAR” né fu la dimostrazione.
Primissimi anni ottanta, tre poco più che ragazzini cominciano a pensare di mettere in piedi  una discoteca, all’inizio sembra la classica fantasticheria tra adolescenti, ma stranamente la fiammella non si spegne, continua a bruciare e prende piede nella convinzione di quelle tre testoline già abbastanza sconvolte dalle tempeste ormonali tipiche di quelle età.
Era il periodo in cui a Marano spopolava il “Peter Pan”, poco più di un garage, molto lontani dalle mega discoteche che poi sarebbero state aperte nell’ hinterland ed in tutta Italia. Il Peter Pan era sempre super affollato e si faceva la fila per entrare, allora pensammo che ci fosse margine per allargare l’offerta. Questa era l’idea imprenditoriale entusiasmante, poi sopraggiunsero le difficoltà oggettive deprimenti: 1)Calvizzano non era Marano. 2) Non avevamo una lira. Da qui le soluzioni geniali, non avremmo mai potuto ed in fondo mai voluto competere con il Peter Pan. Di affittare un locale non se ne parlava, ma il papà di uno dei soci aveva un deposito in disuso pieno di cianfrusaglie che anticamente era una stalla, infatti erano ancora presenti le mangiatoie. Per effettuare i lavori non potevamo chiamare professionisti né tantomeno manodopera, quindi decidemmo di allargare la società ad alcuni apprendisti: un elettricista, un muratore e un idraulico, l’assemblea dei soci più ampia arrivò a nove membri, ma devo dire che si cimentarono anche loro parenti come piastrellisti ecc. in cambio di future tessere per ingressi gratuiti.
Adesso occorreva solo il materiale. Erano gli anni del post terremoto ed erano disponibili decine di cantieri dove “trafugare” il necessario: poche pietre di tufo, qualche mattone, alcuni sacchi di cemento, qualche canna di tubo in pvc, qualche carriola di sabbia. Decidemmo di fornire il “Little Star” si servizi igienici e la cosa più imbarazzante fu sottrarre un wc appena smontato da una casa in ristrutturazione.
Venne poi il momento delle attrezzature tecnologiche e lì dovemmo per forza dare vita ad un fondo cassa, dopo svariate sedute ed accese discussioni, fissammo la cifra cadauno da investire più consona di ventimila lire (+/- 10 euro), proponendoci con i primi incassi di integrare sempre meglio il servizio.
E così partimmo, furono pomeriggi e serate di intenso lavoro, materiale ed intellettuale, dove non arrivava la capacità realizzativa sopperiva l’ingegno, emblematico l’episodio di come ricaricare lo scarico del wc, troppo costoso e complicato da mettere in atto, quindi si optò per l’accortezza dell’addetto all’angolo bar che avrebbe dovuto vigilare ogni qual volta uno usciva dal bagno e aprire un rubinetto collegato ad un tubo che raggiungeva lo scarico. La costruzione del bagno fu l’opera più faticosa da mettere in atto, ma poco prima dell’apertura l’anima imprenditoriale ebbe il sopravvento e si decise di eliminarlo per fare spazio al più redditizio guardaroba a pagamento. La maggioranza approvò la mozione ma nel momento cruciale dovemmo tirare a sorte perché nessuno aveva il coraggio di tirare la martellata fatale a quel wc che era costato tanta fatica e tanta sfacciataggine per camminare con una tazza del cesso sotto al braccio .
Le mangiatoie diventarono comode sedute, la scala che portava dalle stalle al piano superiore diventò l’angolo privè con opportuna tenda che separava dalla pista, pista composta da un quadrato di mattonelle di 5x4m circa che soprelevammo di qualche cm riuscendo persino a farci passare sotto un cavetto che raggiunse la mattonella centrale sostituita da un vetro con sotto un faretto psichedelico. Un parabrezza d’auto opportunamente fissato proteggeva il lavoro del dj dietro alla sua consolle… Anche il dj era socio in quanto dj. Lui stesso fece la lista delle cose da comprare e tutti i soci andammo a Napoli presso un negozio specializzato ma ci accorgemmo subito che la somma necessaria era mooolto superiore al nostro budget e dopo un massacrante depennamento prendemmo alcuni 45 giri, una lampada al mercurio, alcuni faretti colorati e una scatoletta che con enfasi  definimmo il nostro impianto psichedelico, in effetti collegata al piatto faceva andare le luci al ritmo del suono… ed era perfino regolabile in intensità.
Le stallette erano due, una l’adibimmo ad ingresso pre sala con angolo bar e guardaroba, la seconda a pista vera e propria, con consolle e privè. I soffitti erano a cupola e si prestavano bene alla  fantasia, un socio di Mugnano tessè dei telai con chiodi che congiunse con fili di lana che riflettevano alla luce della lampada a mercurio, su una parete della sala invece venne fuori un vero e proprio capolavoro perché con lo stesso metodo riuscì a tirar fuori una testa di bisonte. Il resto del soffitto raggiunse un aspetto avveniristico ricoprendolo con decine di cartoni portauova che ci procurò il fratello di uno dei soci che lavorava in una salumeria.
La casa dove viveva la famiglia del socio proprietario dell’immobile non era adiacente ma distava alcune decine di metri e quindi da alcune altre proprietà e visto che avevamo bisogno di energia elettrica dovemmo scavalcare i tetti di queste proprietà con un cavetto per raggiungere la meta, chi non ci diede il permesso non saprà mai che su quei tetti passammo lo stesso.
Il tempo della realizzazione durò qualche mese e non costruimmo solo la discoteca ma tante relazioni e una bella fetta dei noi stessi futuri, non sto dicendo che fu tutto rose e fiori, anzi vi verificarono i più feroci dissapori, anche qualche faida tra mini gruppi di soci, qualcuno lasciò facendo subentrare qualcun altro, ma il progetto, il sogno andò avanti e tanti furono quei ragazzi e ragazze che offrirono il loro tempo perché in quello spigolo di via Ritiro riconoscevano un loro nuovo habitat. Un gruppo di ragazze volontarie di dedicarono alle pulizie, altri maschi mettevano a disposizione le loro competenze e consigli e nacquero anche tanti amori  e tanti rifiuti… a me toccò la seconda tipologia!
Ma arrivò il giorno dell’inaugurazione, era una domenica di novembre, apertura ore 16,00… eh lo so, altri tempi! Si cominciò subito con l’entrata a pagamento, non ci potevamo permettere l’ingresso libero perché avevamo estremo bisogno di liquidità. Costo del biglietto 3000 lire, consumazioni e guardaroba non compresi, al bar 100 lire un bicchiere di coca o aranciata, per posare il giubbino 500 lire.
Non ricordo quanto fu l’incasso ma ne avanzò per andarci a mangiare una pizza dopo la chiusura noi tutti i soci insieme ai collaboratori più stretti. Le stallette si riempirono e il successo si ripetè per tutte le domeniche successive tanto che cominciammo ad aprire anche il sabato. Molti attendevano fuori che si liberassero  posti all’interno dove già era difficilissimo divincolarsi.
La storia del Little Star durò pochi mesi e paradossalmente finì per causa del suo eccessivo successo, riuscimmo a tener buone le pur frequenti risse che cominciarono a verificarsi all’esterno trattando con gli “ultras”, fummo capaci anche di sostenere con tanta diplomazia le lamentele dei residenti, perfino quando ci fu un furto di un motorino… ma dovemmo cedere all’intervento della Siae che pretese il pagamento dei diritti d’autore.
Qualche anno dopo fui invitato da altre persone a partecipare ad un progetto simile, il locale era più ampio, le risorse più ingenti, presero me come amuleto per emulare il precedente successo… ma lo spirito non era quello e la cosa naufragò dopo poche settimane.
Il “Little Star” è rimasta una esperienza unica, breve, intensa e visionaria, ma guai a pensare che sia stata assurda. Non c’è unità di misura per quantificare i sogni, soprattutto quando si realizzano non esistono quelli piccoli e quelli grandi, la loro unica dimensione è data proprio dalla loro apparente iniziale irrealizzabilità. I sogni non hanno misure, tantomeno di dignità, perché ognuno è degno di cominciare a vivere in colui che lo partorisce e nessun altro lo può giudicare, dire ad un bambino che è “normale” che l’aquilone che ha costruito voli è un delitto… soprattutto se non si è mai costruito un aquilone e non si conosce l’emozione nel vederlo volare.
Vi lascio con uno dei “riempipista” del “Little Star”. Bei sogni a tutti.

Gennaro GB Ricciardiello


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