Street View a Calvizzano anni ’70



E’ un capolavoro che si legge tutto d’un fiato

Google mi ha chiesto una collaborazione lavorativa, per questo mi ha fornito un aggeggio molto tecnologico: un casco su cui è montata una macchina fotografica particolare che fotografa i posti dove si cammina… ma con la particolarità di riprodurre l’immagine di quel luogo negli anni ’70.
Ho accettato l’incarico e non vedo l’ora di provarlo, allora indosso subito il casco e, di colpo, non sono più Gennaro Gb Ricciardiello,  ma o’ figlio e “Rafel o’ Mancin”, chill ca ten a terra a Nocelleto: sotto il mio sedere mi ritrovo la bici usata che mio padre mi comprò da “zì Rabbiel e Cutenon”. Allora prendo e parto, esco dal “Luoco” dove sono nato  e ho trascorso i miei primi 20 anni in via Vittorio Emanuele. Il “luoco” è la denominazione delle classiche costruzioni dell’epoca con un portone d’ingresso, le abitazioni intorno e uno spazio centrale, nei luochi le case potevano essere anche poche, ma raramente erano poche le famiglie che vi abitavano.
Mi ritrovo nel “Vico” , quello in fondo via Vittorio Emanuele, anzi all’inizio rispettando il senso unico odierno… ma allora i sensi unici a Calvizzano non esitevano. Giro la testa a sinistra e la macchina scatta la foto del luoco adiacente il nostro, Zì Lorenzo o ‘uttar (il bottaio) sta rifinendo il suo ultimo barile…. Questa macchina è pazzesca, perché riproduce anche le voci e i suoni e risento distintamente i “dim, di-dim” ripetuti e costanti come i rintocchi di un pendolo con cui “Zi Lorenzo” stringe i cerchi alle sue botti. In mezzo al cortile c’è una bambina con un grembiule che gioca a ramazzare… ma se guardo bene è un bambino, lo riconosco: è il famoso coiffeur Enzo Cerullo, o figlio e’ “Lorenzo o’ Barone”, a sua volta fratello del compianto parroco don Peppino (Cerullo), è là che è nato Enzo Coiffeur.
Nel mio  vico a sinistra ci sono le entrate di altri luochi, a destra invece un muro con le finestre delle abitazioni dei luochi da cui si accede dal vico parallelo al nostro. Ma se dico finestre non rendo l’idea, perché il concetto moderno di “finestra” non rispecchia minimamente quello di allora, perché quelle erano vere e proprie aperture di convivenza. La prima finestra è quella del dottor Morra, la macchina scatta una foto di un uomo di cui non riesco a ricordare l’identità, seduto nelle sere e a volte nelle notti d’estate, sul davanzale con un libro, intento a studiare. La seconda finestra è quella di “Maria e Pasteffasul”, gran brava donna… ma la macchina può scattare foto in diverse epoche e ne scatta una della stessa finestra, quando là non abita più Maria, ma “mast Filiberto o’ falignam”, ma il rumore della sega e delle martellate è sopportabile perché , purtroppo, dall’altra parte zi Lorenzo ha smesso di stringere i suoi cerchi.
La successiva finestra era quella della famiglia di “Filomena a’masculona” : lei, spesso, scavalcava e veniva a giocare “a semmana” nel nostro vico. Successiva finestra: Carolina, la macchina scatta un immagine troppo sfuocata per definirla. Ancora una finestra e comincia lo shopping, infatti è quella di “Totonno de’ Banane”, chiamato così per il lavoro che svolgeva, commerciante di banane appunto. Bastava bussare alla finestra e lui o la moglie ci porgevano le banane che chiedevamo. Altra finestra/negozio quella successiva, dove si comprava il pane, da “Cuncetta e Ciaccalone”, gran lavoratrice anche se non aveva un marito che collaborava molto al bilancio familiare: riuscì a crescere dignitosamente i suoi numerosi figli, tra cui il papà dell’attuale sindaco Giuseppe Salatiello. Quella finestra era la più scomoda per me, perché posta più in alto delle altre: per bussare e chiedere il pane dovevo arrampicarmi.
La macchina sul mio casco scatta a destra e prende il luogo adiacente dall’altro lato, dove abita “Pastenacon” (grossa carota) con la moglie Peppenella, un vecchietto molto scorbutico, ma la macchina scatta anche la foto dell’epoca successiva e rivedo “Mimì o chianchier” (macellaio) con la moglie Maria Attilia.
Comicio a pedalare, ad uscire dal vico e l’ultimo luoco è quello dove abita “Luigi o’ Crapar” e sua moglie “Maculata”: in quel luoco ho trascorso molto della mia infanzia, non avendo ricordo di nessuna nonna naturale elessi subito Maculata al ruolo di nonna a tutti gli effetti. Secondo la norma dell’epoca Maculata aveva molti figli e figlie e queste ultime, quando io ero neonato alcune di loro erano bambine, altre adolescenti ed hanno giocato a fare le mamme con me, anche perché andarono subito d’accordo con mia madre, prima forse per la curiosità, poi per l’affinità: mia madre era una novità, perché veniva da un paese che, all’epoca, si poteva definire lontano, parlava un altro dialetto (almeno i primi anni). Mia madre mi racconta sempre che lei ha visto la casa, dove sarebbe andata ad abitare per sempre, il giorno del matrimonio e spesso mi dice : “Cosa mi importava di sapere dove, io sapevo con chi”.  Facile immaginare l’ascendente di una certo tipo di persona sulle ragazze del vico, quindi ben presto la parola d’ordine fu “Vulimme je add’a’ sposa?”.
Loro comprarono il televisore prima di noi e io, quando le trasmissioni cominciavano nel pomeriggio negli unici due canali della Rai, con la “tv dei ragazzi”, andavo a guardare le avventure di Ciuffettino e del suo cane Melampo o il gioco per ragazzi “Chissà chi lo sa” o i telefilm di Zorro, tutto rigorosamente in bianco e nero e già sembrava un miracolo così.
In quel luogo, come in tutti gli altri, lo spiazzo centrale aveva una funzione che non era certo quello di parcheggiare le macchine, visto che ce n’erano pochissime, ma quello di fungere da aia “l’aria” detto in dialetto, posto dove si svolgevano –ovviamente in modo comunitario- i lavori, ed io ricordo ancora quando ci si sedeva a “spollicare le spogne”, cioè togliere i grani di mais dalle pannocchie, praticamente  uno ad uno, con l’aiuto di un piccolo  ferro uncinato con un manico, o magari a “battere i fagioli”, cosa da fare rigorosamente “a cor e miezjuorn” nel cuore del mezzogiorno, quando i baccelli secchi erano più croccanti e si rompevano facilmente, per poi ripulirli dalla pula al vento ponentino che usciva nel primo pomeriggio.
I lavori comunitari diventavano mezzo di interazione, socializzazione, comunicatività e fratellanza. In poche parole il lavoro diventava una festa. Come la tournèe del periodo delle bottiglie di pomodoro, in cui tutto il vicinato faceva quelle di tutti. Ognuno aveva un suo ruolo in cui si era specializzato: la più ricercata maestra a legare lo spago sui sugheri (lavoro ad alta specializzazione e di grande responsabilità) era “Carmela ‘e Puparuol” che abitava nel vico affianco, ma questo non era di nessuna delimitazione.
Esco dal vico con la bici e, di fronte, scatto la foto della casa di “Ciccione” eMaculatina”, una coppia che solo in tarda età scoprii essere fratello e sorella e non marito e moglie. Ciccione era un commerciante di vino molto amico di mio padre: erano così amici che, quando mio padre per un periodo divenne concorrente perché anche lui vendeva vino, quando uno dei due rimaneva temporaneamente sprovvisto, per non dispendere i rispettivi clienti, di notte le botti di vino trasmigravano attraversavano tutto il vico dall’uno all’altro. Bravissima persona Ciccione, ma anche di grande e ingiustificata avarizia. Una volta mi chiese di accompagnarlo a Qualiano con la mia macchina, perché doveva andare a comprare un po’ di insalata: ad un certo punto mi chiese di fermarmi per farlo scendere, io gli chiesi perché, visto che il fruttivendolo distava ancora più di cento metri, e lui mi rispose che se ci avesse visto arrivare con la macchina avrebbe pensato che eravamo ricchi e si sarebbe preso più caro!!
Di fronte a Ciccione dove c’era, tra gli altri, “Girolamo e zi Nannina”, una coppia senza figli di una signorilità britannica. Non solo eravamo vicini di casa, ma anche di campagna e la scena di quando la moglie portava il pranzo al marito resterà per me indelebile: arrivava e presso il “pagliaro” ricovero campagnolo fatto di una struttura di legno e ricoperto di paglia o “stocchia” (piante di mais private delle pannocchie), stendeva su una cassetta la sua tovaglia e tirava fuori dal suo fagotto l’inimmaginabile e tutto per due, dalle forchette ai bicchieri ai piatti alle salviette, bottiglia di acqua e vino, versava “la spesa” (primo piatto) nei piatti e pranzavano insieme…. Quando si dice “Signori si nasce”.
Nello stesso luoco abitava la mitica “Amelia a Schiavetta”, con il suo inseparabile barboncino nero, di lei mi è rimasto impresso il suo “tuppo” (oggi si direbbe schignon, ma tuppo ci appartiene di più), sempre perfetto ed incorniciato dalle sue trecce nere, sempre nere:  non ricordo che abbia mai ingrigito Amelia, del resto il suo “soprannome” di famiglia “Schiavitto” trova la sua etimologia in “persona dai tratti moreschi, saraceni”.
Andando avanti in quel senso ho dovuto girare la bici perché via Indipendenza non esisteva, ma diventa uno stradone di campagna e poi il nulla: usavo quello stradone come scorciatoia per andare a scuola alle elementari, tranne quando aveva piovuto perché le scarpe si sporcavano di fango.

Ora il segnale della batteria della macchina comincia a lampeggiare, torno indietro nel mio luoco e “Pupata” (a quei tempi a volte i soprannomi prendevano il sopravvento a tutti gli effetti sui nomi di battesimo) all’anagrafe Angela Salatiello, ennesima figlia di Concetta e Ciaccalona, con la sua instancabile positività e gioia di vivere, mi chiede se voglio una sfogliatella, che il marito Giovanni aveva appena portato da Scaturchio. “Giovanni (detto o’ Capone)” era impiegato ai telefoni di Stato, ma, avendo (guarda caso) una famiglia numerosa ed essendo ex autista di camion, arrotondava facendo consegne e allora a volte portava dolci quando erano per Scaturchio, a volte pesce, quando erano per la pescheria ecce cc.
La batteria non ne può più!
 Poso la bici e dico a te che stai leggendo,  anzianotto/a come o più di me, a te a cui si è formata quella fossetta che di solito è sulla guancia sinistra, figlia di un sorriso malinconico a mezza faccia, a te che sei nato/a nella mia stessa zona e ti riconosci o a te che sei di un’altra zona e ti farebbe piacere che street view  anni ’70 passasse anche dalle tue parti, faccelo capire… altrimenti esercito il diritto di recesso e rimando indietro a Google la macchina fotografica.

P.S.  Chiedo scusa se ho usato nomi reali e non di fantasia, me ne assumo tutte le responsabilità.
Personalmente ritengo che la psicosi della privacy ci stia facendo rinchiudere nei nostri gusci come le lumache, quei tempi erano belli, perché c’era condivisione e Facebook mi piace, perché è fondato sulla condivisione.
Noi, da soli, non siamo niente e le nostre storie non interessano a nessuno: insieme, invece, siamo una comunità e ognuno si riconosce nella storia dell’altro, quindi al diavolo la privacy e viva la condivisione.


Gennaro GB Ricciardiello

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