Storie che appassionano: Amir Reko, il comandante bosniaco che preferì restare umano


Poco dopo aver perso la sua famiglia, Amir Reko salvò la vita a 45 serbi. Un documentario ha fatto riemergere la sua storia . Per alcuni, da Nobel

La storia di Amir Reko, l’abbiamo appresa dal settimanale il “Venerdì di Repubblica”, a firma del giornalista Riccardo Michelucci: ne vale la pena raccontarla.
Era da poco diventato comandante della 43esima Brigata di difesa  territoriale bosniaca, in quella maledetta estate del 1992, quando venne informato che le milizie serbe avevano attaccato il villaggio di GudelJ, a poco più di 100 chilometri da Serajevo, massacrando la popolazione. Nella lista dei civili bruciati vivi nelle loro case c’era sua madre, suo nonno e altri cinque componenti della sua famiglia. Un paio di giorni dopo, il Comando bosniaco ordinò alla sua divisione di attaccare il vicino villaggio di Bucje, a maggioranza serba, perché rappresentava una possibile minaccia. Il destino gli stava offrendo la possibilità di vendicarsi, di sfogare la sa rabbia e la sua disperazione su altri civili innocenti e inermi come i suoi familiari. Ma la sua coscienza si ribellò di fronte all’orrore e gli impedì di diventare a sua volta carnefice.
“Non chiamatemi eroe, sono soltanto un uomo”. Amir Reko continua a ripeterlo tutte le volte che viene chiamato a raccontare la sua storia, tragica ed esemplare accaduta 25 anni fa. Eppure questo ex militare dallo sguardo triste, oggi poco più che cinquantenne, è riuscito con un solo gesto a contraddire tutti i luoghi comuni sul rancore cieco e vendicativo sul conflitto nei Balcani. Dopo la guerra, Reko ha lasciato il suo Paese per trasferirsi in Danimarca, dove si è costruito una nuova vita diventando uomo d’affari. Nel frattempo sono state lanciate iniziative per proporre la sua candidatura al Nobel per la Pace e per raccontare la sua storia in un film. Di fronte a quel che resta della sua casa bruciata, l’ex comandante Reko ha fatto costruire un monumento alla memoria di sua madre e della sua famiglia: “E’ difficile restare umani durante una guerra come quella, ma niente può giustificare certi crimini. Non credo di essere un eroe, ho fatto solo quello che chiunque avrebbe dovuto fare in una situazione simile”.      


Fonte Il Venerdì di Repubblica del 10 gennaio 2017 (dove è possibile leggere l’articolo completo)

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