Calvizzano, un’ idea rivoluzionaria per farci sognare: intitoliamo la nuova villa comunale a Francesco Davide, detto “Spellicchione”
Quante volte non facciamo le cose che vorremmo per “paura” della
reazione degli altri? Ecco la timidezza. Questa volta l’idea ci sembra
originale e, anziché tenercela chiusa in un cassetto, lontana dagli occhi
indiscreti, la lanciamo, lasciando a voi la scelta di intitolare la nuova villa
comunale a chi come Francesco Davide,
detto “Spellicchione”, ha vissuto una vita da “ultimo”.
A Francesco la “diversità” gli è stata imposta, per questo condannato
all'indifferenza e perseguitato con derisione.
E' sublime immaginarlo seduto sulla panchina della nuova villa comunale, immerso nel suo cruciverba, riposando dopo il compimento di una sua opera di arte ebanista, custodita nel luogo che ha più amato, Calvizzano.
E' sublime immaginarlo seduto sulla panchina della nuova villa comunale, immerso nel suo cruciverba, riposando dopo il compimento di una sua opera di arte ebanista, custodita nel luogo che ha più amato, Calvizzano.
“Spellecchione”
di Michele Ciccarelli
Non ho nessuno che mi rimbocchi le
coperte, amico.
Cerco solo qualche spicciolo per
mangiare.
Quando la piazza è vuota e sembra
un’anima dolente, percorro l’immaginario tracciato dei miei pensieri.
E’ da un pezzo che busso alla tua porta,
amico, perché sono certo della tua bontà!
Una e due e tre malinconie e quattro
balordi che scagliano pietre e dicono: - Va’ a morire –
Sono così stanco, ho un sonno lasciato a
metà, nella notte paurosa…
-I cani lambirono l’acqua del mio
costato reclamando la tana –
In questo preciso istante potrei anche
sparire, nessun dolore ci sarebbe per me.
Chi era Francesco Davide
Ultimo dei figli, perse la mamma che da
tempo soffriva di una malattia che la faceva svenire. Su questo fatto un
suo familiare racconta che Franco, benché piccoletto, quando la
mamma aveva quelle crisi che la facevano svenire, cercava di sorreggerla finendo
con il precipitare a terra con lei e a volte si faceva male. Il padre,
convolato a seconde nozze, spinto forse dalla moglie, affidò Franco ad un
collegio a Napoli gestito da preti. Lì frequentò, sicuramente, le scuole medie
inferiori e, molto probabilmente, alcuni anni del ginnasio. Poi, presso un noto
ebanista di Napoli, che i preti del collegio conoscevano, imparò quel mestiere.
Da ragazzo feci la sua conoscenza a casa di una mia zia che affidò a lui il
restauro di alcuni mobili d’epoca. Francesco era una persona assai semplice,
apparentemente introversa e pensierosa, per poi rilevarsi assai loquace e
affabile se gli si dava buona confidenza. A distanza di anni, posso immaginare
che il suo carattere fu molto segnato dalla morte della mamma e dal fatto che
dovette lasciare la sua famiglia per essere rinchiuso in un collegio, quando
era ancora un fanciullo. Mia zia, mossa da tenerezza, gli preparava da mangiare
e lui, dopo aver pranzato, si concedeva pochi minuti di relax con
l’enigmistica. Fu così che scoprimmo che era molto bravo con i
cruciverba: un vero campione. Era un po’particolare anche
nell’abbigliamento e nella cura sua persona. Indossava, a volte, dei vestiti
che non sembravano proprio della sua taglia, ma leggermente più grandi. Per
capirci, quelli che a volte si ricevono in dono perché dismessi da qualcun
altro, però ancora in buono stato, oppure comprati per pochi soldi in un
mercatino dell’usato. Portava i capelli più lunghi rispetto a quella che era la
moda dell’epoca (anni ’60 ) e la barba non è che la radeva tutti i giorni. Di
statura un po’ bassa, a me risultava simpatico, forse anche perché suscitava
quella tenerezza tipica delle persone che la vita le ha costrette
a vivere in solitudine. Non disdegnava un buon bicchiere di vino, forse anche
due, ma che male c’era? Purtroppo queste sue caratteristiche furono la ragione
per cui alcuni iniziarono quotidianamente e pubblicamente a
deriderlo, a offenderlo e, forse, qualche volta fu addirittura malmenato.
In realtà possiamo dire che la colpa di Franco era quella di apparire “diverso”.
Questa assurda gogna durò parecchio tempo tra la indifferenza generale, e
portò Franco ad uno stato di tensione che penso lo fece precipitare in un grave
stato depressivo. Ricordo i suoi occhi smarriti, quando alcune persone si
accanivano a volte ferocemente contro, accusandolo di tutto e offendendolo
pesantemente. In quei momenti di grande ed evidente sofferenza, bisbigliava
delle cose incomprensibili. A volte l’uomo in branco esprime il peggio
di se stesso. Sono convinto che tutti quelli che si accanivano contro di
lui, al solo desiderio, a modo loro di divertirsi, se avessero pensato per un
momento alla condizione di solitudine e forse di indigenza di quell’uomo non si
sarebbero comportati così come si comportarono. E’ giusto annotare che un suo
fratello cercò di aiutarlo per quelle che erano le sue possibilità. Una sera,
purtroppo, fu investito da una macchina (voglio sperare per sua imperizia), ma
non riferì a nessuno dell’accaduto, nemmeno ai suoi familiari. Oramai
psicologicamente si era, come si usa dire, “lasciato andare”. Da allora iniziò
un rapido deterioramento delle sue già precarie condizioni si salute e dopo
poco finì. A me piace ricordarlo, quando sereno, seduto sulla solita panchina
metallica in piazza, Franco ingannava il tempo a compilare i cruciverba, prima
che iniziasse quel suo calvario. Ora rivedo quegli stessi occhi smarriti negli
immigrati, quando arrivano esausti e disperati sulle nostre coste. L’attualità
rischia di farci diventare più indifferenti verso gli emarginati, verso quelli
che in maniera impietosa vengono definiti “gli ultimi”. Corriamo sempre
più in avanti, dimenticando chi, per sua sventura, sta indietro. Ma non
sarebbe meglio se rallentassimo per dare una mano a chi sta indietro tirandoli
affianco a noi? Il sorriso di chi riceve un aiuto è il più bello dei
sorrisi.
Peppino Pezone, storico
E voi cosa ne pensate
della nostra idea? Fatecelo sapere sia attraverso i commenti che su facebook
Adesso, qualcuno potrebbe replicare, asserendo che la nostra è un’idea triste, mentre la villa
comunale, simbolicamente rappresenta il luogo della spensieratezza e
dell’allegria (c’è anche un angolo con giochi per bambini). Il concetto
rivoluzionario sta proprio in questo: vedere le cose da un’angolatura diversa
rispetto a quella “comune”. Senza
volerci addentrare in analisi sociologiche e psicologiche, poiché non è nostro
compito, va ricordato che “Spellicchione”,
da come lo descrive Pezone, era un ragazzo allegro e felice, solo che è stato
segnato dalle vicissitudini che la vita gli ha riservato. Pure lui è stato
vittima di una società dove non si ha più neanche un minuto da dedicare agli
ultimi, ai deboli, a causa del materialismo sfrenato. E queste cose bisognerà
spiegarle a chi un domani, leggendo “Villa Francesco Davide” ("In questo preciso istante potrei pure sparire, nessun dolore ci sarebbe per me"), si chiederà chi
era costui, non avendo conosciuto questo singolare personaggio che nell’immaginario
collettivo suscita ancora tanta tristezza, ma, nel contempo, anche tanta voglia
di contribuire a lavorare per una società migliore, partendo dai nostri luoghi,
martoriati da sciacalli e criminali senza scrupoli. Portare in villa un figlio,
un nipote, significa dedicargli ritagli di tempo, trasmettergli amore e
serenità, le cose che, probabilmente, sono mancate a “Spellicchione”.
Ultima considerazione. Ai tempi di Granata
sindaco, l’amministrazione decise di intitolare la villa comunale di via Pietro
Nenni alla buonanima della campionessa di pattinaggio a rotelle Raffaella
Paolone, deceduta prematuramente in un tragico incidente. Fu presa in
considerazione questa possibilità, poiché la villa era di imminente apertura
(con l’avvento di Salatiello, poi, fu stravolto il progetto e, di conseguenza,
si sono dilatati i tempi), mentre il completamento del Palazzetto dello Sport
era ancora in alto mare. L’amministrazione
Salatiello, invece, ha saputo agganciarsi al treno dei finanziamenti europei
per completare la struttura sportiva di via Caduti di Superga e consegnarla
alle associazioni sportive del territorio, con il nome di PalaRaffaella. La
cosa più giusta da fare, poiché il sogno di Raffaella era quello di poter un
giorno venire a insegnare nella sua
città la disciplina sportiva da lei tanto amata.