L'antico palazzo della masseria Capozzelle come si presenta oggi |
A Peppe
Barleri (nativo di Marano, ma vissuto a Calvizzano da
sposato fino alla sua morte precoce) va anche ascritto il merito di aver
contribuito a tramandare ai posteri
alcuni documenti interessanti sulla rivoluzione partenopea del 1799. Marano e Calvizzano, come è scritto in uno
degli articoli che lo storico e scrittore (autore di diverse pubblicazioni su Marano e Calvizzano) inviava ogni mese al periodico l’attesa, pagarono severamente per aver creduto negli
ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza che stavano alla base della
rivolta. Una rivolta repressa dalla superstizione del popolino e dalla spada di
una Chiesa ancora tanto lontana dai bisogni della gente, quanto becera e
sanguinaria. A Calvizzano erano in pochi, mentre a Marano il gruppo era più
nutrito. Appartenenti alle più importanti famiglie cittadine, erano avvocati,
notai, possidenti, preti, medici e farmacisti. Acculturati e di tutto rispetto,
chiedevano maggiore libertà, più giustizia sociale e volevano contare di più
nelle scelte di una monarchia borbonica troppo legata ai privilegi del passato
e a una Chiesa non certamente serva di Dio, ma di un re tanto despota quanto
sanguinario. Non è stato facile – scrisse Barleri – scovarli e conoscere la
loro storia. Questo perché, dopo che la rivolta fu domata, e le condanne
eseguite, il re fece distruggere tutti gli atti ufficiali riguardanti la
rivolta stessa e i suoi partecipanti. Ma nonostante tutto, qualcosa è rimasto e
con il tempo è emersa una Marano e una Calvizzano per niente domate o succube
del re. I rivoltosi maranesi si radunavano al Palmento (l’attuale via Roma), a
casa di Mattia D’Avanzo; nella cappella Dentice di Sotto, appositamente aperta
al sabato sera dal reverendo don Ignazio Dentice (ospitò per un paio di notti
l’ammiraglio Francesco Caracciolo durante la sua fuga che lo portò nel palazzo
ducale di Calvizzano dove fu catturato) che vi partecipava attivamente; a casa
del notaio Gennaro Moyo; alla masseria “Capozzelle” di via Marano-Quarto (a
circa 200 metri dall’inizio di città Giardino, ndr), il seicentesco edificio
dei Palumbo. Edificio, dove si riunivano anche i giacobini calvizzanesi, che,
all’epoca, apparteneva a Matteo Palumbo,
cognato di Gennaro Moyo, avendone sposato la sorella Maria. Gli altri rivoltosi
più ragguardevoli erano il possidente Nicola Di Criscio; l’avvocato Vincenzo
D’Avino, il più giovane di tutti, il figlio di quel Bernardino che era stato
sindaco di Marano nel 1772; il possidente Pietro Moyo abitante al Truglio; il
notaio Raffaele Palumbo, che più tardi divenne sindaco di Marano; il medico
Salvatore Poerio, parente del più famoso Carlo, anche lui abitante sulla strada
“dello speziale”; il reverendo Gaetano Di Lauro e Nicola Di Criscio, eletti più
per rispetto dell’età che per meriti. E che si radunassero molto spesso alla
masseria “Capozzelle”, già molti anni prima della rivolta napoletana, lo
ricaviamo dal diario autografo del reverendo Pasquale Giglio di Calvizzano. Molti di essi furono catturati e
andarono a finire in carcere, ma nessuno fu messo a morte, anche se più di uno
ci andò molto vicino.