Da
un’analisi più approfondita del risultato elettorale, al di là di chi ha vinto (al
quale facciamo gli auguri di buon governo) e di coloro che hanno perso (per i
quali si spera facciano un’efficace opposizione), emerge un dato
incontrovertibile: Calvizzano è un paese totalmente da rifondare. Prima
civilmente e culturalmente e, poi, politicamente. Insomma, occorre quella
rivoluzione che non c’è, ma che non c’è mai stata e che, per il momento, resta solo
un sogno di pochi. Da queste parti, purtroppo, il voto continua a non essere considerato
uno strumento di democrazia, ma un semplice optional. A pochi importa se il
prescelto da votare ha sempre governato male, riducendo il paese allo sbando; se
non ha mai aperto bocca in consiglio comunale; se non conosce la differenza tra
una delibera e una determina; se è abituato a fare continui salti della
quaglia, passando con nonchalance dai banchi dell’opposizione a quelli della
maggioranza; se ha compiuto gesti politici eclatanti (come, ad esempio, quello
di gettarsi nelle braccia dell’avversario di sempre pur di vincere le elezioni);
se è chiacchierato sotto tutti i punti di vista e conserva qualche scheletro
nell’armadio.
“Io voto
Tizio perché me lo ha detto suo zio, un potente molto rispettato a…”.
“Quest’anno
voto Caio: mi ha assicurato che mio figlio andrà a lavorare nell’impresa di un
suo caro amico”.
“Io aggia
vutat a Sempronio, chill è o nipot carnal e mio marito e nun c’putev dicer no!”
Ma quello
è uno spregiudicato: lo sanno tutti.
“Non
importa: Ognuno s’ vot o mariuol suoie”.
Queste
sono solo alcune delle più significative frasi che si sono ascoltate, a detta
di molti, durante questa campagna elettorale fatta di veleni e accuse al
vetriolo e che non hanno bisogno di essere commentate. Per non parlare dei
fenomeni di malcostume: probabile compravendita di voti; distribuzione pacchi alimentari
e buoni spesa, come avveniva ai tempi di Lauro; lavori che sarebbero stati effettuati
gratis da imprese il cui titolare sponsorizzava un suo parente candidato; rassicurazioni sui concorsi che verranno.
Dove c’è
terreno fertile per una subcultura dominante, purtroppo accade di tutto. Cosa
fare per cambiare rotta? Bisogna ripartire da zero, per creare i presupposti di
una vera rivoluzione culturale. Per raggiungere l’obiettivo, serve l’apporto di
tutte le persone di buona volontà che
sentono questo bisogno primario. Occorre, dunque, un lavoro certosino che duri
365 giorni all’anno e non solo i due-tre
mesi che precedono le elezioni. C’è bisogno di un lavoro di ascolto del
territorio che servirà, poi, a tradurre in progetto le proposte più
interessanti e utili. Cosa che dovrebbero fare i partiti, che, però, da queste
parti non esistono più, neanche quelli che vanno per la maggiore in campo
nazionale. Quindi ben vengano associazioni e movimenti che hanno voglia di
fare. Dulcis in fundo, serve, comunque,
una buona dose di coraggio per attuare tutte le forme pacifiche di proteste
immaginabili, capaci di apportare un ritorno utile alla città.