Amedeo Pugliese, un ragazzo di Calvizzano, racconta la sua esperienza di docente in una università australiana



Nell’ultimo mese il Queensland (regione a Nord-Est dell’Australia) è stato al centro delle cronache perchè colpito prima da un fortissimo alluvione e poi dal ciclone Yasi: in entrambe le circostanze i danni sono stati enormi. In quei posti si trova da pochi mesi Amedeo Pugliese, 31 anni, per più di un lustro giornalista de “Il Mattino”, ricercatore universitario presso l’Università Federico II di Napoli. Si è trasferito nel Queensland per lavorare come docente di Ragioneria Internazionale e Corporate Governance presso il Queensland Institute of Technology. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare non solo l’esperienze vissuta con la terribile alluvione ma anche per capire com’è maturata la sua scelta di andare laggiù.
“Può sembrare un paradosso – dice Amedeo Pugliese - ma gli eventi drammatici dell’alluvione mi hanno dato una misura di cosa significhi vivere qui. Brisbane - la città in cui risiedo - è stata colpita a metà gennaio da questo dramma. Quarantamila volontari l’hanno rimessa in piedi nel giro di sette giorni; e ieri, il Sindaco ha dichiarato che il servizio di trasporto pubblico via fiume sarà ripristinato con due mesi di anticipo rispetto a quanto inizialmente promesso. Quando sono arrivato, a Ottobre, l’assessore ai lavori pubblici si è dimesso perchè i lavori per la costruzione di un ponte pedonale avrebbe richiesto due settimane ulteriori di disagio. Su un totale di oltre 800 giorni di lavoro.
Sembra che ci siano grosse differenze con i tuoi luoghi di provenienza.
“Sì. Sono sorpreso dall’importanza enorme che ha il giudizio pubblico sull’operato dei politici, degli amministratori. E’ il concetto di ‘accountability’, che da noi manca a tutti i livelli. Nell’amministrazione pubblica come nell’Università, ma anche nelle imprese private, e l’elenco non è esaustivo”.
Come sono nate l’idea e l’opportunità di lavorare presso un’Università australiana?
“Come accade talvolta, è frutto un po’ della casualità. Avevo concordato con il Preside della mia facoltà a Napoli un periodo di ricerca all’estero. QUT offriva una posizione di un anno, attraverso un annuncio sul principale motore di ricerca internazionale per selezionare docenti e ricercatori nelle discipline economiche. Tre colloqui via skype, cinque telefonate a diversi colleghi in Europa per chiedere referenze e nel giro di due mesi mi hanno offerto un contratto ‘tenure track’, cioè a tempo indeterminato a patto che entro i primi tre anni raggiunga gli obiettivi che abbiamo negoziato”.
Com’è il contesto lavorativo? Flessibilità significa precarietà anche da quelle parti?
“Sono qui da troppo poco per dirlo, ma non è infrequente che persone oltre i cinquant’anni decidano di cambiare città o lavoro. C’è molta flessibilità, ma da entrambi i lati, e non è solo a scapito della categoria dei lavoratori. E poi c’è un forte senso dell’etica del lavoro. Da noi il lavoro è diventato quasi un’utopia, e lo si nota anche nello scoramento tra gli studenti più brillanti”.
Nostalgia?
“Si. I miei luoghi mi mancano molto. Così come mi mancano alcuni giornalisti, i teatri, la musica e l’intelligenza che non ho mai ritrovato – così affinati – anche in contesti eccellenti. Per fortuna con me ho una libreria di autori napoletani che mi riconnettono ai luoghi primordiali. Consiglio a tutti di fare un’esperienza all’estero. Vale moltissimo ed è molto più semplice di quanto si pensi. Qualche giorno fa una persona mi ha chiesto cosa ne pensassi dell’idea di investire soldi della propria ‘liquidazione’ per far studiare la figlia in una presitgiosa università inglese: le ho risposto che non credo esista un investimento migliore”.

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