Anche L’Impegno Giovane si batte per una strada da intitolare a Otello

Ci fa enormemente piacere che la neonata associazione culturale l’ Impegno Giovane si sia accomunata alla nostra proposta di intitolare una strada al compianto artista nostrano Otello Di Maro. In questi giorni, sulla home page del loro sito, campeggia una foto e una delle tante poesie di Otello, il tutto corredato da un sommario, dove si legge che, in futuro, si impegneranno per dedicargli l’attenzione che merita.
Ricordiamo Otello per capire chi soffre
Sono trascorsi 11 anni dalla morte di Otello Di Maro: si tolse la vita a 54 anni, con un cappio alla gola, in una gelida vigilia di Natale del ’98. Lo fece a mezzanotte, con lucida premeditazione. La sua è una storia “della porta accanto” che, nell’imminenza del Natale, merita di essere raccontata. Era un “nero a metà”: frutto dell’amore di una ragazza di Calvizzano per un militare americano di colore, che aveva promesso di sposarla a guerra finita, ma non si era visto più. Poco più di 60 anni fa, una ragazza madre e un “negro”, diverso suo malgrado (nessuno gli avrebbe dato in sposa una figlia), erano segnati a dito; perciò, avevano vissuto arrangiandosi. Ma Otello studiò da autodidatta, imparò a suonare e coltivare la poesia e interessi multiformi che spaziavano perfino nell’occultismo. Negli anni ’70 si esibiva insieme con Mario Musella, il blusman di “Un’ora sola ti vorrei”. Faceva l’imbianchino e gli piaceva spendere quel poco che guadagnava. Trascorreva gli altri giorni al biliardo con gli amici o al tavolo verde, dato che era anche un giocatore di carte. Sui giornali, il suo suicidio fu archiviato come il caso di un reietto, un disoccupato, un malato di solitudine. Ma Otello non era così. Dalla raccolta delle sue liriche e testi musicali, pubblicata postuma a cura di Paolo Ferrillo e altri amici, emerge l’immagine del poeta di colore che ha conservato in musica e versi la storia disperata della sua anima e della sua voce blues, come ripeteva lui stesso. Suonava la chitarra e aveva una tastiera per arrangiare canzoni. Era uno spirito libero desideroso di giustizia, un cantore metropolitano incline a fondere la poesia con la musica e a inseguire il mito della vita come opera d’arte. La morte della madre fu un brutto colpo: venne a trovarsi solo in “uggiosa misantropia”, dice in una lirica. Da questo nasce in lui la convinzione di un destino già scritto, oltre il quale esiste solo “l’empio gesto della disubbidienza”, il suicidio che meditava da tempo. Il giorno di San Giuseppe del ’98, a un carissimo amico maranese, Peppe Biondi, regalò del liquore marca “Otello”, dicendogli di brindare quando sarebbe morto. Forse voleva che la sua vita finisse come un romanzo ottocentesco, con la speranza che l’aldilà non fosse diviso in bianchi e neri o ricchi e poveri. E così, trovò il coraggio e il modo di non tornare indietro. Fece scomparire tutti i vestiti fino all’ultimo calzino; scrisse agli amici di dimenticarlo; lasciò sul comodino una foto e 10mila lire “Per Caronte”: un’ultima citazione dall’inferno dantesco, partorita con la rassegnazione di chi sa che il Dio dei giusti, da lui tanto cercato, non l’avrebbe accolto. Infine, la morte, alla maniera di un eroe alfieriano, estrema protesta contro un mondo che non gli era piaciuto. Qualche anno fa, un comitato fece registrare un cd con le sue canzoni e istituì un concorso di poesia per giovani talenti; l’amministrazione di Calvizzano manifestò l’intenzione di fare qualcosa in sua memoria, ma poi tutto è finito nel dimenticatoio. Quale momento migliore del Natale, per lanciare l’iniziativa di intitolargli una strada, lui che, come Gesù, nacque povero, soffrì e morì al gelo. Sarebbe una gran bella cosa, un modo concreto per ricordarsi di tutti i poveri e degli emarginati nella festa della vita.

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