Esclusiva Calvizzanoweb. “Il Pellicano e Cristo: Simbolo d’Amore e di Sacrificio nella Chiesa di Santa Maria delle Grazie (Parrocchia San Giacomo)
Un simbolo antico e carico di spiritualità, presente anche nella nostra Chiesa Parrocchiale, torna alla luce grazie alla ricerca appassionata del prof. Luigi Trinchillo, che con questo studio ci dona una nuova chiave di lettura del patrimonio iconografico e religioso di Calvizzano.
Nel suo lavoro di approfondimento e rilettura dei segni artistici e spirituali presenti nella nostra amata Chiesa di Santa Maria delle Grazie, il prof. Luigi Trinchillo ci offre uno sguardo inedito su un elemento finora poco considerato: la figura del pellicano, potente allegoria cristologica del sacrificio e dell’amore redentivo di Cristo. Un simbolo che attraversa secoli di arte e teologia, e che oggi torna a parlarci attraverso la sensibilità e la competenza di uno studioso profondamente legato alla storia e all’identità del nostro paese.
Accompagna la sua relazione una missiva che riportiamo integralmente, testimonianza del tono personale e affettuoso con cui il professore ha voluto condividere questo dono di ricerca e di fede:
Carissimo Mimmo,
ti invio in allegato una mia relazione su un aspetto poco noto e mai prima trattato da chi aveva scritto sulla nostra splendida Chiesa di Santa Maria delle Grazie. Considera questo lavoro un dono per te e per il tuo impegno a far conoscere i tanti tesori piccoli e grandi del nostro amato Paese, non sempre apprezzati, soprattutto perché poco noti.
Spero di aver scritto un testo che ti convince, ti fa scoprire qualcosa che conoscevi finora poco e, specialmente (mi auguro!), ti piace.
Con stima e affetto,
Luigi
Questo contributo si inserisce con merito nella tradizione degli studiosi che hanno raccontato la storia di Calvizzano con passione e rigore. Un esempio luminoso di come la fede, la cultura e l’amore per il territorio possano incontrarsi in un’opera che arricchisce tutta la comunità (Mi.Ro.)
“Questi è colui che giacque sopra ’l
petto
del nostro pellicano, e questi fue
di su la croce al grande officio eletto”.[1]
(Dante, Paradiso XXV 112-114)
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Il pellicano: simbolo del Cristo
nella iconografia medioevale
Un’altra
storia leggendaria dell’epoca pre-cristiana e protocristiana che riguarda i
pellicani, riferita nel “Physiologus”, è alquanto truce, ma prevede una
conclusione edificante. Ecco la leggenda: i pellicani sono genitori severi, che
pretendono obbedienza immediata e cieca da parte dei pulcini e, se qualcuno è
restio o si ribella, pare che venga subito ucciso degli stessi genitori. I
quali, tuttavia, se “pentiti” e/o in vista del desiderio di un nuovo contatto
con i propri piccoli, ferendosi a sangue il petto, con il liquido sgorgato,
riuscirebbero a “resuscitarli”… Il testo richiama pure una variante, sempre
drammatica, ma meno feroce, del mito, secondo la quale un pulcino, se morso da
un serpente velenoso, riuscirebbe ad essere richiamato in vita dai genitori,
attraverso il sangue di uno dei due, sempre ottenuto mediante una ferita
cruenta, procuratasi dalla bestiola sul petto.
Da
tutto ciò che sono venuto dicendo fin qui, è facilmente ricavabile la trasposizione
simbolica del pellicano nell’ambito del Cristianesimo primitivo. Due
testimonianze di grandi santi e testimoni della fede cristiana contribuirono a
rafforzare questa metafora del pellicano/Cristo. Parlo di Sant’Agostino e
di Sant’Isidoro di Siviglia.
Sant’Agostino, nel suo commento ai Salmi, in riferimento ai versetti 7
e 8 del Salmo 101, afferma: “Similis factus sum pellicano solitudinis” e “Habet … haec
avis, si vere ita est, magnam similitudinem carnis Christi, cuius sanguine
vivificati sumus” (“Sono
stato reso simile al pellicano del deserto” e “Questo uccello ha, se ciò
è vero, una grande somiglianza con la carne di Cristo, dal sangue del quale
siamo vivificati”).
Sant’Isidoro di Siviglia, senza alludere direttamente alla metafora pellicano=Cristo,
riferisce la leggenda secondo cui “Avis Aegyptia habitans in solitudinem Nili
fluminis, unde et nomen sumpsit; nam Canopos Aegyptus dicitur. Fertur, si verum
sit, eam occidere natos suos, eosque per triduum lugere, deinde se ipsam
vulnerare et aspersione sui sanguinis vivificare filios” (“Un uccello egiziano che abita nel
deserto lungo il fiume Nilo da dove ha ricavato anche il nome; infatti, Canopo
è chiamato l’intero Egitto. Si racconta, ammesso che la notizia sia vera, che
esso –[il pellicano] – uccida i propri figli e li pianga per [ben] tre giorni,
poi si ferisca da solo e, con l’aspersione del suo stesso sangue, richiami in
vita i figli, i pulcini”).
Le
metafore attribuite a questi due personaggi straordinari, il cui ruolo sarà
fondante nella Chiesa Cristiana dei primi secoli, rappresentano, pur con i
dubbi da essi stessi manifestati, una giustificazione identificativa di questo
semplice uccello con la figura simbolica del Signore Nostro Gesù Cristo.
E, come se non bastassero loro, lo Pseudo Melitone, uno scrittore dell’età
carolingia, Brunetto Latini, nel suo Trésor, opera ben nota a
Dante, molti Bestiari medioevali, e perfino San Tommaso d’Aquino
nel suo Inno ‘Adoro te devote’[2],
se non danno per scontata l’identificazione, la propongono molto più che come
ipotesi di lavoro e congettura speculativa.
In
questo senso, Gesù Cristo è il “pellicano”, che versa il proprio sangue
e dona la sua carne per nutrire i suoi figli, i fedeli, sacrificandosi per la
salvezza e per il benessere dell’umanità. Certo, la trasposizione oggi potrebbe
sembrare troppo ardita e soprattutto contaminata da un elemento teorico non
sovrapponibile: il pellicano ha quel comportamento per istinto della specie, e
non per scelta volontaria sacrificale, laddove il Sacrificio di Cristo
fu atto di volontaria adesione alla volontà del Padre, per riscattare l’umanità
dal baratro della colpa ed assicurarle la redenzione ed una salvezza,
differentemente non realizzabile. E tuttavia, fatte le debite differenze,
rimane, in sé, il gesto di chi si sacrifica per i propri “figli”, per salvarli
da una morte fisica (nel pellicano) ed escatologica (nel caso del Cristo).
Questa identificazione si affermò nell’epoca “eroica” del Cristianesimo, quella
in cui i cristiani erano perseguitati ed occorreva “nascondere” la propria fede
religiosa sotto immagini che fossero, però, di per sé stesse “parlanti”, per
quelli della stessa credenza e ideologia.
Viene
alla memoria, immediatamente, un’altra icona cristiana molto diffusa ed
adoperata nelle Catacombe e nella sedi di riunione dei primi fedeli cristiani: il
pesce. In questo caso, occorre richiamarsi alla trascrizione greca del
termine Ichthýs il cui acrostico[3]
dà l’espressione complessa “Iesoûs Christòs Theoû Hyiòs Sotér”
(letteralmente: “Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore”). Il simbolo del
pesce divenne, pertanto, il segno segreto identitario, grazie al quale i
Cristiani riuscivano a riconoscersi non solo nelle abituali Comunità, ma anche
in località lontane, remote e/o sconosciute. Ecco perché questo simbolo si
affermò come un vero e proprio “emblema” del Cristo, fin dai primi decenni dopo
la morte del Signore e continuò ad essere riprodotto anche nei secoli in cui
ormai il Cristianesimo era considerato una religione “tollerata” (313 d.C.) e
poi addirittura “religione di Stato” (380 d.C.)[4].
Che
il simbolismo del pellicano/Cristo fosse diffuso e persistente è attestato
indirettamente anche da un canto sacro, oggi quasi del tutto dimenticato, nel
cui testo compare la seguente espressione latina: “Pie Pelicane, Jesu Domine”
ovvero “O Pio Pellicano, Nostro Signore Gesù Cristo”. La raccolta
enciclopedica del Bestiario medioevale narrava del pellicano affermando che
si trattava di un animale estremamente “morigerato” e abituato ad un’esistenza
alimentare parca, così da consumare solo il cibo realmente necessario e capace
di sopravvivere, lui e i suoi pulcini, senza “ingozzarsi”, come fanno tanti
altri uccelli. Infatti, il concetto identificativo del pellicano con il mondo
cristiano risulta rafforzato nel prosieguo del canto religioso citato: “L’eremita
[cristiano] vive in modo simile [al pellicano], perché si nutre di solo pane e
non vive per mangiare, ma piuttosto mangia solamente il necessario per vivere”.
Un
animale simbolico di tale portata iconografica non riuscì a sfuggire, per un
motivo che dirò più avanti, alla schematizzazione dell’immagine, operata anche per
un particolare motivo: il becco ampio e ricurvo fu idealizzato in una forma di
contenitore vitreo per vaporizzare e sublimare sostanze capaci di trasformare il
piombo allo stato fuso in oro, divenendo una sorta di “pietra filosofale”,
intesa nel senso positivo: per i teorici cristiani, così, il pellicano evidenziava
simbolicamente l’aspirazione non egoistica alla purificazione, che è poi l’atteggiamento
ideale del fedele cristiano che, attraverso la professione di fede e la pratica
religiosa, migliora sé stesso e si rende adatto alla salvezza dell’anima.
In
conclusione, l’immagine simbolica del pellicano assunse lentamente, nei secoli,
tutti questi sovrasensi, oggi diremmo meta-religiosi e meta-culturali, che lo
fecero riprendere e riprodurre nelle arti figurative.
Ebbene,
nella nostra Chiesa Parrocchiale di Santa Maria delle Grazie a Calvizzano, si
pensò bene di riprodurre l’immagine del pellicano in ferro battuto e rame sulle
formelle che arricchiscono ed ornano i sei cancelli che danno accesso alle sei
Cappelle poste ai lati della navata centrale.
Com’è
noto[5],
le sei cappelle laterali della Chiesa-madre di Calvizzano furono edificate non
contestualmente alla navata centrale né erano previste dal progetto iniziale
del tempio sacro, ma nacquero progressivamente, nell’arco di oltre un secolo.
Infatti, dopo lo spostamento dell’altare principale dall’originaria cappellina
di Maria Annunciata (la terza cappella a destra entrando), nella
previsione che sarebbe rimasto vuoto quello spazio, un benefattore con notevoli
disponibilità economiche, che aveva perduto da poco la sposa amata, volle che
fosse allestito un altare sul quale si celebrasse costantemente in futuro una
Santa Messa in suffragio per lei. A sorgere per prima fu, quindi, la Cappella
dedicata alla Vergine del Santissimo Rosario[6],
fatta erigere nel 1605 da Giovanni Calzone, che, oltre a varie donazioni,
stabilì che la Chiesa di Santa Maria delle Grazie potesse contare su un
appannaggio di 500 ducati d’oro, somma considerevole per l’epoca, da usare per
la celebrazione di tre Messe a settimana, su un altare, una “Cona”, del SS.
Rosario, a suffragio dell’anima della moglie, Grazia Marfella. Vista la
favorevole impressione che questo recente manufatto esercitava su tutti coloro
che accedevano in Chiesa, soprattutto perché inserito in modo armonico nel
nuovo Tempio che andava arricchendosi di sempre nuove opere, altri benefattori locali
decisero di fare edificare, a loro volta, altre Cappelle laterali, così che,
alla fine, non solo furono erette tutte e sei le attuali strutture, ma furono
anche abbellite tutte di tele nello stile del Barocco Napoletano.[7]
Nacquero, così, le tele di Santa Lucia, di San Gennaro, dell’Annunciazione,
di San Francesco di Paola, di San Filippo Neri, di Maria
Assunta in Cielo. Queste tele subirono, nell’arco di oltre tre secoli, vari
spostamenti[8],
per armonizzare le immagini dell’intero tempio calvizzanese, spostandone alcune
per fare spazio ad altre opere e statue, realizzate negli anni. Ad esempio, si
diede una luminosa sistemazione alla splendida statua del Cuore di Gesù,
sulla quale intervenne anche il celebre pittore Vincenzo Irolli, oppure per
creare il monumento alla Vergine del Santo Rosario di Pompei, ancora oggi
di grande venerazione popolare.
Le immagini rimosse furono altrove sistemate e si spostò definitivamente anche il quadro della cappella laterale dedicato all’Assunta, sostituito dal grande e magnifico capolavoro di Andrea Malinconico in tela, che domina in lunghezza il soffitto della navata centrale, dedicato alla Vergine Maria Assunta in Cielo. Certo, il progetto sviluppatosi in itinere presentò anche qualche “doppione”: è il caso della statua a mezzo busto dal volto dorato dedicata al Patrono della Diocesi Napoletana, San Gennaro, che si trovò così a “condividere” la cappella con la tela antica dedicatagli nel Settecento. Purtroppo, ignoti “ammiratori” della tela o “fedeli” fortemente impegnati nella “venerazione” del Santo Martire provvidero, tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento, ad “asportare” proditoriamente quella e parecchie altre tele delle Cappelle laterali e mai più ritrovate, oppure recuperate dal Nucleo Speciale dei Carabinieri, gravemente manomesse o ridotte in pezzi, come nel caso di Santa Lucia, la martire siracusana.
Lungo
il corso dei secoli, in una concezione degli spazi ecclesiali molto differente
da quella attuale, nel secolo XIX, dopo la sistemazione del pavimento marmoreo,
si pensò di porre davanti a ciascuna Cappella un cancello di ferro battuto, di
buon artigianato, per “isolare” quel piccolo spazio dalla navata centrale, e
forse anche per consentire a gruppi di fedeli che volessero farlo, di “adottarne”
uno, provvedendo alla dignitosa manutenzione dell’altare e dei manufatti
religiosi presenti in ciascuno.
Occorre
ricordare che, all’epoca, la Chiesa di Santa Maria delle Grazie a Calvizzano conosceva
una particolare organizzazione: il Parroco della Parrocchia San Giacomo
Apostolo Maggiore conservava il titolo antico, ma, perduta l’iniziale sede
di Via Santo Jacono/Jacolo, era considerato quasi “ospite” ed era
preposto esclusivamente all’organizzazione dei riti religiosi, all’amministrazione
dei Sacramenti, a provvedere alla catechesi e a quant’altro necessario ad una
buona conduzione ecclesiale. Per tutto ciò che concerneva, invece, l’organizzazione
degli aspetti pratici ed esistenziali della Chiesa S.M.d.G. provvedeva un’Amministrazione
Laicale,[9] erede
dell’originaria e cinquecentesca “Confratanza”, che raccoglieva fondi,
organizzava eventi per il culto esterno, le processioni, la pulizia dei locali
non solo della Chiesa, ma anche degli spazi annessi. Per ogni iniziativa straordinaria
era comunque necessario consultare il Parroco e, “di concerto”, decidere sull’organizzazione
dell’evento. Per i circa quattro secoli di questa “convivenza forzata”, grazie
soprattutto allo spirito di collaborazione e di conciliazione sia dell’Amministrazione
che dei Parroci susseguitisi negli anni, il “sistema” funzionò, fino allo
scioglimento dell’organizzazione laica e all’acquisizione della piena
responsabilità (religiosa ed amministrativo-finanziaria) da parte del Parroco della
Parrocchia San Giacomo Apostolo.
Occorre
puntualizzare che, sebbene le entrate parrocchiali potessero contare sulla
riscossione del “censo” per il beneficio delle rendite di terreni donati nei
secoli da fedeli e benefattori alla Madonna delle Grazie e a San Giacomo,
fu sempre complesso, quando non difficile, far “quadrare i conti” ed ogni spesa
extra metteva in difficoltà, prima, gli Amministratori laici, poi, lo stesso
Parroco, per cui, se un gruppo si impegnava a curare la manutenzione ordinaria
e straordinaria di una delle Cappelle, l’iniziativa era sempre ben accetta, perché
sollevava i responsabili da spese economiche generali. In termini alquanto
differenti, ancora oggi c’è, ad esempio, un gruppo di fedeli che si impegna a
preparare dignitosamente la cappella dedicata alla Santissima Vergine di Pompei,
in occasione della recita della Supplica.
I
cancelli delimitanti ciascuna delle sei Cappelle, costruiti in ferro battuto
con un disegno unitario conservano ancora oggi un elemento che a molti sarà di
sicuro sempre sfuggito o non inteso nel senso del suo spirito simbolico originario.
Tutti, infatti, presentano delle formelle di ferro battuto ricoperte di rame, rappresentanti
l’identica immagine: un pellicano che, col becco si squarcia il petto, per
nutrire i propri pulcini. È evidente che qualcuna di tali formelle, essendo esse
semplicemente appoggiate alla struttura del cancello[10]
e sostenute da due piccoli viti che andavano anch’esse soggette alla ruggine,
ogni tanto cadeva oppure era staccata per evitare che cadesse, ma poi se ne
perdeva memoria, oppure, addirittura, sottratta da malintenzionati ritenendola venalmente
“preziosa”, doveva essere sostituita con copie più recenti, eseguite dalle mani di esperti artigiani, sul modello
originario. Ad un occhio esperto, infatti, non sfuggirà che la manifattura
delle decorazioni non è attribuibile ad un solo operatore. L’ultimo vero intervento
di reintegro e di restaurazione delle formelle risale agli anni Ottanta/Novanta
del Novecento, nel periodo della Cura del Parroco Don Peppino Cerullo, quando
fu effettuata un’azione di tinteggiatura delle pareti, di restauro e pulizia
degli stucchi di tutte e sei le Cappelle. Don Ciro Tufo, l’attuale Parroco,
poco dopo l’inizio del suo Ministero a Calvizzano, fece ritinteggiare l’intero
edificio ecclesiale, incluse, naturalmente le Cappelle laterali.
Originariamente
le formelle erano dello stesso colore del resto del manufatto, per cui spesso
non venivano notate e perciò si decise di dare loro una tinteggiatura ramata,
che, inevitabilmente, nel tempo, perdeva colore per l’ossidazione.
Molti
fedeli e visitatori occasionali, di sicuro, consideravano e forse tuttora
considerano tali formelle semplicemente decorative, senza comprendere
che la figura del pellicano non era stata scelta a caso dall’artigiano chiamato
all’abbellimento delle ante dei cancelli, ma servivano a riaffermare il
concetto che la nostra Chiesa Parrocchiale di Santa Maria delle Grazie,
pur intitolata alla Madonna, è davvero una Chiesa “cristologica”,
e ricorda questo aspetto anche nei particolari meno evidenti. Ciò in risposta
alla raccomandazione dettata dal Concilio di Trento (1545-1563) di
ribadire, sempre e ovunque possibile, il concetto che è Cristo Salvatore il
centro della vita religiosa dei fedeli, che vanno educati con la Catechesi,
a non fermarsi alla venerazione mariana, ma debbono dedicarsi soprattutto al
culto di adorazione di Dio Uno e Trino, e rappresentato storicamente dalla
Seconda Persona Trinitaria, cioè Gesù Cristo, graficamente effigiato
simbolicamente nei secoli della pratica religiosa riservata, perché non
consentita e perseguitata, da un semplice uccello: il pellicano che,
metaforicamente, allegoricamente e simbolicamente, richiamava il dono di sé da
parte del Signore, capace di sacrificarsi “fino alla morte e alla morte
di croce”, come ebbe a dire San Paolo[11].
[1]
“Questi è l’apostolo Giovanni, che, durante l’Ultima Cena posò il capo sul petto di
Cristo, e che da Cristo in Croce fu scelto per l’alto compito di essere al suo posto
figlio di Maria Sua Madre”. (Dante Paradiso XXV 112-114).
L’episodio evangelico cui il Poeta fa qui riferimento è il seguente: Giovanni
13, 21-30. Eccolo: “Dette queste cose, Gesù fu profondamente turbato e
dichiarò: ‘In verità, in verità io vi dico: uno di voi mi tradirà’. I discepoli
si guardavano l’un l’altro, non sapendo bene di chi parlasse. Ora, uno dei
discepoli, quello che Gesù amava, si trovava al fianco di Gesù. Simon Pietro
gli fece cenno di informarsi chi fosse quello di cui parlava. Ed egli,
chinandosi sul petto di Gesù, gli disse: “Signore, chi è?”. Rispose Gesù: “È
colui per il quale intingerò il boccone e glielo darò”. E, intinto il boccone,
lo prese e lo diede a Giuda, figlio di Simone Iscariota. Allora, dopo il
boccone, Satana entrò in lui. Gli disse dunque Gesù: “Quello che vuoi fare,
fallo presto”. Nessuno dei commensali capì perché gli avesse detto questo;
alcuni infatti pensavano che, poiché Giuda teneva la cassa, Gesù gli avesse
detto: “Compra quello che occorre per la festa”, oppure che dovesse dare
qualche cosa ai poveri; egli, preso il boccone, subito uscì. Ed era notte”. (Testo
in traduzione TOB/2018 – Elledici editrice).
[2] È uno dei Cinque Inni
che San Tommaso d’Aquino scrisse per l’istituzione della Solennità del Corpus
Domini del 1264, su esplicito invito del Romano Pontefice Urbano IV . I
versi che ci interessano specificamente così recitano: “Oh pio Pellicano,
Signore Gesù, purifica me, immondo, col tuo sangue, del quale una sola goccia
può salvare Il mondo intero da ogni peccato. Oh Gesù, che velato ora
ammiro, prego che avvenga ciò che tanto bramo, che, contemplando Te col volto
rivelato, a tal visione io sia beato della tua gloria. Così sia”.
[3] L’acronimo è un nome
costituito dalle lettere iniziali di una serie di termini successivi, di una
frase coerente e logica, di senso compiuto. In pratica, oggi diremmo, più
semplicemente, una specie di sigla oppure anche un ‘logo’.
[4] L’Editto di
tolleranza del 313 fu concesso a Milano dall’imperatore Costantino il Grande. In
seguito, Teodosio il Grande concesse, nel 380, il riconoscimento di religione
ufficiale dello Stato al Cristianesimo, emanando l’Editto di Tessalonica.
[5] Per chi volesse
approfondire la storia analitica di ciascuna Cappella laterale, faccio
esplicito richiamo al documento da me elaborato sullo stesso tema e già reso
pubblico qualche tempo fa.
[6] Attualmente ospita
l’antico Simulacro di San Giacomo, dopo che la secentesca statua con l’immagine
della Vergine del Rosario è stata spostata nella cappella di Santa Lucia (la prima a destra entrando in Chiesa).
[7] Lo stesso stile a cui
si era richiamato il famoso pittore Nicola Vaccaro, autore delle tre preziose
tele poste sull’altare maggiore e sugli altari dei due “cappelloni” laterali,
vale a dire la “Madonna delle Grazie”, “Gesù che cade sotto la croce e incontra
la Madre e le Pie Donne” e la “Deposizione dalla Croce di Gesù morto”.
[8] Ho personalmente
illustrato questo lungo iter di adeguamento e sistemazione in una specifica
relazione sulle “Sei Cappelle laterali della Chiesa Parrocchiale di Santa Maria
delle Grazie a Calvizzano”, a cui rimando per i particolari.
[9] Per quasi un secolo
l’antica Confratanza che aveva edificato la Chiesa originaria di Santa Maria
delle Grazie poté autonomamente darsi una struttura interna, con un Presidente, un
Segretario, un Tesoriere, dei Soci scelti a rotazione, nel corso di una solenne
cerimonia pubblica. Intervenne successivamente una riforma che, dalla metà del
XVII secolo, attribuì all’Universitas Calvizzani la prerogativa di
scegliere gli Amministratori, con un incarico stabilito pro tempore fra i
cittadini, per evitare che la nomina divenisse una sinecura per esibire un
incarico onorifico, oppure che la durata fosse troppo lunga e si perdesse così il
senso della partecipazione dell’intera Comunità alla responsabilità
amministrativa dell’Edificio sacro. A questo aspetto dell’organizzazione
partecipativa laica sarà, comunque, riservato un approfondimento specifico, per
definirne l’interessante evoluzione tra il XVI ed il XX secolo, quando, nella seconda
metà, avverrà l’eliminazione burocratica definitiva dell’Amministrazione
laicale.
[10] Inizialmente le
formelle erano solo “incollate” con resine particolari, certo non in grado di
sfidare i secoli. Pertanto, ad un’ennesima caduta di esse, si provvide a
bloccarle con due viti per ciascun pezzo.
[11] San Paolo, Lettera ai
Filippesi 2, 5-11. “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Gesù Cristo: egli,
pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come
Dio, ma svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile
agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò sé stesso facendosi
obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo, Dio lo esaltò e gli
donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni
ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua
proclami: ‘Gesù Cristo è il Signore!’, a gloria di Dio Padre”. (La versione in lingua italiana qui
proposta è quella tratta dalla TOB/2018, Elledici editrice).