Ce lo ha inviato il prof. Luigi Trinchillo, uomo di fede di cultura e d’azione: è
degno erede degli scrittori che
hanno raccontato la storia di Calvizzano
[Gesù, rivolto all’apostolo Pietro]
“In verità, in verità io ti dico:
quando eri più giovane
ti vestivi da solo e andavi dove volevi;
ma quando sarai vecchio
tenderai le tue mani,
e un altro ti vestirà
e ti porterà dove tu non vuoi”.[1]
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“Amen, amen dico tibi: Cum esses iunior,
cingebas te, et
ambulabas ubi volebas:
cum autem senueris,
extendes manus tuas,
et alius te cinget,
et ducet quo tu non
vis”.[2]
(Dal Vangelo di Giovanni capitolo 21, versetto
18)
Egli comparve improvvisamente sulla soglia e la mamma gridò: “Oh
benedetto!” correndo ad abbracciarlo. Anche Anna e Pietro, i due fratellini
molto più giovani, si misero a gridare di gioia. Ecco il momento aspettato per
mesi e mesi, così spesso balenato nei dolci sogni dell’alba, che doveva
riportare la felicità.
Egli non disse quasi parola, troppa fatica costandogli
trattenere il pianto. Aveva subito deposto la pesante sciabola su una sedia, in
testa portava ancora il berretto di pelo. “Lasciati vedere” diceva tra le
lacrime la madre, tirandosi un po’ indietro “lascia vedere quanto sei bello.
Però sei pallido, sei”.
Era alquanto pallido infatti e come sfinito. Si tolse il
berretto, avanzò in mezzo alla stanza, si sedette. Che stanco, che stanco,
perfino a sorridere sembrava facesse fatica.
“Ma togliti il mantello, creatura” disse la mamma, e lo guardava
come un prodigio, sul punto d’esserne intimidita; com’era diventato alto,
bello, fiero (anche se un po’ troppo pallido). “Togliti il mantello, dammelo
qui, non senti che caldo?”.
Lui ebbe un brusco movimento di difesa, istintivo, serrandosi
addosso il mantello, per timore forse che glielo strappassero via.
“No, no, lasciami” rispose evasivo “preferisco di no, tanto, tra
poco devo uscire…”.
“Devi uscire? Torni dopo due anni e vuoi subito uscire?” fece
lei desolata, vedendo subito ricominciare, dopo tanta gioia, l’eterna pena
delle madri. “Devi uscire subito. E non mangi qualcosa?”.
“Ho già mangiato, mamma” rispose il figlio con un sorriso buono,
e si guardava attorno assaporando le sue amate penombre. “Ci siamo fermati a un’osteria,
qualche chilometro da qui…”.
“Ah, non sei venuto solo? E chi c’era con te? Un tuo compagno di
reggimento? Il figliolo della Mena forse?”
“No, no, era uno incontrato per via. È fuori che aspetta adesso”.
“È lì che aspetta? E perché non l’hai fatto entrare? L’hai
lasciato in mezzo alla strada?”.
Andò alla finestra e attraverso l’orto, di là del cancello di
legno, scorse sulla via una figura che camminava su e giù lentamente; era tutta
intabarrata e dava sensazione di nero. Allora nell’animo di lei nacque,
incomprensibile, in mezzo ai turbini della grandissima gioia, una pena
misteriosa e acuta.
“È meglio di no” rispose lui, reciso. “Per lui sarebbe una
seccatura, è un tipo così”.
“Ma un bicchiere di vino? glielo possiamo portare, no, un
bicchiere di vino?”.
“Meglio di no, mamma. È un tipo curioso, è capace di andare
sulle furie”.
“Ma chi è allora? Perché ti ci sei messo insieme? Che cosa vuole
da te?”.
“Bene non lo conosco” disse lui lentamente e assai grave. “L’ho
incontrato durante il viaggio. È venuto con me, ecco”.
Sembrava preferisse altro argomento, sembrava se ne vergognasse.
E la mamma, per non contrariarlo, cambiò immediatamente discorso, ma già si
spegneva nel suo volto amabile la luce di prima.
“Senti” disse “ti figuri la Marietta quando saprà che sei
tornato? Te l’immagini che salti di gioia? È per lei che volevi uscire?”.
Egli sorrise soltanto, sempre con quell’espressione di chi
vorrebbe essere lieto eppure non può, per qualche segreto peso.
La mamma non riusciva a capire: perché se ne stava seduto, quasi
triste, come il giorno lontano della partenza? Ormai era tornato, una vita
nuova davanti, un’infinità di giorni senza pensieri, tante belle serate
insieme, una fila inesauribile che si perdeva di là delle montagne, nella
immensità degli anni futuri. Non più le notti d’angoscia quando all’orizzonte
spuntavano bagliori di fuoco e si poteva pensare che anche lui fosse là in
mezzo, disteso immobile a terra, il petto trapassato, tra le sanguinose rovine.
Era tornato, finalmente, più grande, più bello, e che gioia per la Marietta.
Tra poco cominciava la primavera, si sarebbero sposati in chiesa, una domenica
mattina, tra il suono di campane e fiori. Perché dunque se ne stava smorto e
distratto, non rideva di più, perché non raccontava le battaglie? E il
mantello? perché se lo teneva stretto addosso, col caldo che faceva in casa?
Forse perché, sotto, l’uniforme era rotta e infangata? Ma con la mamma, come
poteva vergognarsi di fronte alla mamma? Le pene sembravano finite, ecco invece
subito una nuova inquietudine.
Il dolce viso piegato un po’ da una parte, lo fissava con ansia,
attenta a non contrariarlo, a capire subito tutti i suoi desideri. O era forse
ammalato? O semplicemente sfinito dai troppi strapazzi? Perché non parlava,
perché non la guardava nemmeno?
In realtà il figlio non la guardava, egli pareva anzi evitasse
di incontrare i suoi sguardi come se temesse qualcosa. E intanto i due piccoli
fratelli lo contemplavano muti, con un curioso imbarazzo.
“Giovanni” mormorò lei non trattenendosi più. “Sei qui
finalmente, sei qui finalmente! Aspetta adesso che ti faccio il caffè”.
Si affrettò alla cucina. E Giovanni rimase coi due fratelli
tanto più giovani di lui. Non si sarebbero neppure riconosciuti se si fossero
incontrati per la strada, che cambiamento nello spazio di due anni. Ora si
guardavano a vicenda in silenzio, senza trovare le parole, ma ogni tanto
sorridevano insieme, tutti e tre, quasi per un antico patto non dimenticato.
Ed ecco tornare la mamma, ecco il caffè fumante, con una bella
fetta di torta. Lui vuotò d’un fiato la tazza, masticò la torta con fatica. “Perché?
Non ti piace più? Una volta era la tua passione!” avrebbe voluto domandargli la
mamma, ma tacque per non importunarlo.
“Giovanni”, gli propose invece “e non vuoi rivedere la tua
camera? C’è il letto nuovo, sai? ho fatto imbiancare i muri, una lampada nuova,
vieni a vedere… ma il mantello, non te lo levi dunque?... non senti che caldo?”.
Il soldato non le rispose ma si alzò dalla sedia movendo alla
stanza vicina. I suoi gesti avevano una specie di pesante lentezza, come se
egli non avesse venti anni. La mamma era corsa avanti a spalancare le imposte
(ma entrò soltanto una luce grigia, priva di qualsiasi allegrezza).
“Che bello!” fece lui con fioco entusiasmo, come fu sulla
soglia, alla vista dei mobili nuovi, delle tendine immacolate, dei muri
bianchi, tutto quanto fresco e pulito. Ma, chinandosi la mamma ad aggiustare la
coperta del letto, anch’essa nuova fiammante, egli posò lo sguardo sulle sue
gracili spalle, sguardo di inesprimibile tristezza e che nessuno poteva vedere.
Anna e Pietro infatti stavano dietro di lui, i faccini raggianti, aspettandosi
una grande scena di letizia e sorpresa.
Invece niente. “Com’è bello! Grazie, sai?, mamma” ripeté lui, e
fu tutto. Muoveva gli occhi con inquietudine, come chi ha desiderio di
conchiudere un colloquio penoso. Ma soprattutto, ogni tanto, guardava, con
evidente preoccupazione, attraverso la finestra, il cancelletto di legno verde
dietro il quale una figura andava su e giù lentamente.
“Sei contento, Giovanni? sei contento?” chiese lei impaziente di
vederlo felice. “Oh, sì è proprio bello” rispose il figlio (ma perché si
ostinava a non levarsi il mantello?) e continuava a sorridere con grandissimo
sforzo.
“Giovanni”, supplicò lei, “che hai? Che hai, Giovanni? Tu mi
tieni nascosta una cosa, perché non vuoi dire?”.
Egli si morse un labbro, sembrava che qualcosa gli ingorgasse la
gola. “Mamma” rispose dopo un po’ con voce opaca “mamma, adesso io devo andare”.
“Devi andare? Ma turni subito, no? Vai dalla Marietta, vero?
dimmi la verità, vai dalla Marietta?” e cercava di scherzare, pur sentendo la
pena.
“Non so, mamma” rispose lui sempre con quel suo tono contenuto
ed amaro; si avviava intanto alla porta, aveva già ripreso il berretto di pelo “non
so, ma adesso devo andare, c’è quello là che mi aspetta”.
“Ma torni più tardi? torni? Tra due ore sei qui , vero? Farò
venire anche zio Giulio e la zia, figurati che festa anche per loro, cerca di
arrivare un po’ prima di pranzo…”.
“Mamma” ripeté il figlio, come se la scongiurasse di non dire di
più, di tacere, per carità, di non aumentare la pena. “Devo andare, adesso, c’è
quello là che mi aspetta, è stato fin troppo paziente”. Poi la fissò con
sguardo da cavar l’anima.
Si avvicinò alla porta, i fratellini ancora festosi, gli si
strinsero addosso e Pietro sollevò un lembo del mantello per sapere come il
fratello fosse vestito di sotto.
“Pietro, Pietro! su, cosa fai? lascia stare, Pietro!” gridò la
mamma, temendo che Giovanni si arrabbiasse.
“No, no!” esclamò pure il soldato, accortosi del gesto del
ragazzo. Ma ormai era troppo tardi. I due lembi di panno azzurro si erano
dischiusi un istante.
“Oh, Giovanni, creatura mia, che cosa ti han fatto?” balbettò la
madre, prendendosi il volto tra le mani. “Giovanni, ma questo è sangue!”.
“Devo andare, mamma”, ripeté lui per la seconda volta, con
disperata fermezza. “L’ho già fatto aspettare abbastanza. Ciao Anna, ciao
Pietro, addio mamma”.
Era già alla porta. Uscì come portato dal vento. Attraversò l’orto
quasi di corsa, aprì il cancelletto, due cavalli partirono al galoppo, sotto il
cielo grigio, non già verso il paese, no, ma attraverso le praterie, verso il
nord, in direzione delle montagne. Galoppavano, galoppavano.
E allora la mamma finalmente capì, un vuoto immenso, che mai e
poi mai i secoli sarebbero bastati a colmare, si aprì nel suo cuore. Capì la
storia del mantello, la tristezza del figlio e soprattutto chi fosse il
misterioso individuo che passeggiava su e giù per la strada, in attesa, chi
fosse quel sinistro personaggio fin troppo paziente. Così misericordioso e
paziente da accompagnare Giovanni alla vecchia casa (prima di condurselo via
per sempre), affinché potesse salutare la madre; da aspettare parecchi minuti
fuori dal cancello, in piedi, lui signore del mondo, in mezzo alla polvere,
come un pezzente affamato.[3]
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[1] La traduzione è
quella della TOB/2018. Eccone anche la nota contrassegnata dalla lettera d) a
questo versetto (dalla pagina 2478). “L’autore di questo capitolo scrive dopo
la morte di Pietro. Egli sa che la sua vita si è conclusa con un supplizio che
Gesù annuncia qui. Per l’autore di questo capitolo, e forse per lo stesso
Giovanni (cfr. 13, 36, nota s) alludeva alla morte di Pietro; egli potrà
glorificare Dio. – “Tendere le mani”: possibile allusione alla croce”.
[2] Testo latino
conforme all’edizione vaticana detta “Vulgata Clementina” ~ Bolla di Clemente VIII, IX novembre MDXCII di
autenticità giuridica per la Chiesa universale.
[3] Questo racconto di
Dino Buzzati riscosse immediatamente una fortuna notevole di critica e di
lettori e ciò è attestato dalla circostanza che ne venne ricavato un atto unico
per il teatro, con lo stesso titolo, rappresentato a Milano nel 1960, con la
pubblicazione su “Il dramma” n. 285, a Torino, nel giugno dello stesso anno
1960. Vista l’accoglienza entusiastica del pubblico, ne fu ricavata addirittura
un’opera lirica in un atto con la musica di Luciano Chailly, in prima
rappresentazione al Teatro della Pergola di Firenze l’11 maggio 1960,
con il libretto edito dalla Ricordi in quello stesso anno. Una precisazione
importante: Il racconto “Il Mantello” fu inizialmente inserito nella raccolta
“I Sette Messaggeri”, pubblicata dalla Mondadori nel 1942, in piena epoca della
Seconda Guerra Mondiale in atto, anzi, in un momento drammatico di essa. Questo
esaltò di sicuro l’effetto empatico dei lettori, che vivevano la tragedia in esso
rappresentata. Per questo (e per fortuna!), leggerlo oggi consente di avere un
distacco psicologico meno impattante, probabilmente, sebbene non manchino sui
mass media notizie di conflitti e guerre in giro per il mondo, ancora oggi.