Pratiche e rimedi usati anticamente per curare malanni

                                                

Tanti anni fa, per curare alcuni malanni o lievi indisposizioni del corpo, c’era l’abitudine di rivolgersi  a persone particolari (venivano definiti impropriamente guaritori o guaritrici) che, alla fine, usavano i cosiddetti “Rimedi della nonna”: ricette e consigli popolari, non scientificamente testati ma che in genere funzionavano e sono ancora efficaci, anche più di quelli che invece sono stati “scientificamente studiati”.
Ecco un’ampia carrellata.
Ai bambini che avevano avuto uno spavento (vermenata) si soleva far indossare loro, per una sola notte, una collana interamente composta da spicchi d’aglio; si riteneva che in questo modo si impedisse la formazione dei vermi (tenie). Per i casi più ostinati e ricorrenti, ci si affidava alle pratiche della “verminara”
Le infiammazioni del cavo orale, come gengiviti e mal di denti, si curavano eseguendo delle applicazioni locali di foglie di lattuga (lattughella), precedentemente bollite in acqua.
Per curare le ferite da taglio si applicava una medicazione preparata alla buona, a base di ragnatele (‘a felìnia), verificando prima se l’oggetto causa della ferita fosse arrugginito o meno: poiché era credenza diffusa che la presenza della ruggine determinasse l’insorgenza del tetano. 
L’utilizzo delle ragnatele per curare le ferite infette può sembrare a primo impatto improprio, ma in realtà si è dimostrato che esso ha un fondamento scientifico, in quanto le ragnatele raccolte nei luoghi umidi e bui, come le cantine, potrebbero aver contenuto delle muffe benefiche, capaci di curare le infiammazioni.
In sostanza gli antichi avrebbero anticipato di parecchi secoli la scoperta scientifica della Penicillina! Infatti, nell'anno 1895, il medico e scienziato Vincenzo Tiberio, proprio nella vicina cittadina di Arzano, eseguì delle ricerche sul potere delle muffe, anticipando di ben trent'anni gli studi di Fleming che gli valsero il riconoscimento del premio Nobel alla Medicina. 

Gli studi di Tiberio furono pubblicati su“Annali d’Igiene Sperimentale“, prestigiosa rivista scientifica italiana, sotto la supervisione dell’Istituto d’Igiene della Regia Università di Napoli, purtroppo non ebbero il giusto riconoscimento, per l'importanza della scoperta, dalla comunità scientifica italiana e internazionale dell'epoca.
Nei casi di slogature agli arti si eseguivano delle bendature rigide, tipo manicotti, utilizzando come supporto la “stoppa”, impregnata di albume d’uovo e di ragnatele ammuffite. Con l’essiccazione della parte umida dell’uovo, i manicotti si indurivano, riuscendo in qualche modo ad immobilizzare gli arti.
Per combattere la colite e il mal di pancia si applicava sull’addome una “borsa” di acqua bollente, perché, come si sa, il caldo aiuta a lenire il dolore.
Le difficoltà di digestione venivano superate assumendo un bicchierino di “nocillo”, la sera prima di andare a dormire. Il latte fresco era, invece, considerato un ottimo antidoto nei casi di intossicazione alimentare.
I casi di stitichezza erano risolti mangiando, durante la colazione del mattino, alcune prugne cotte al forno. Le prugne utilizzate per questa pratica curativa erano anche conservate in vasetti di vetro e in grado di durare per l’intero inverno.
In caso di ingestione accidentale di lische di pesce si mangiava la mollica di pane. Gli episodi di tosse causati dal rigurgito di saliva o di cibo, si risolvevano con un’energica pacca sulla schiena del malcapitato. Se questi era un bimbo, lo si faceva distrarre con frasi fantasiose, tipo: “Guarda in alto l’uccellino...”, “’A vecchia ‘ncielo…!”, ecc.).
I denti “di latte”, quando cadevano, dovevano essere depositati in un nascondino, che poteva essere anche un piccolo foro in un muro. Il dente doveva essere posizionato con cura dallo stesso bimbo, recitando questa cantilena dedicata a Sant’Antonio Abate:

Sant’Antuono, Sant’Antuono,
Pigliet’ ’o viecchio e damm’ ’o nuovo;
E dammillo forte forte,
Quanno me ròseco ‘sta varr’ ’e porta.

Il nascondino doveva essere sempre lo stesso per gli altri denti, che sarebbero caduti e doveva rimanere segreto: solo cosi sarebbe cresciuta una bella e sana dentatura!
Nei casi di urti alla testa, si dovevano applicare subito, sulla zona ferita, alcune fette di patate, o mollica di pane bagnata in acqua fredda e poi strizzata. La zona doveva essere opportunamente compressa con le mani. Si riteneva che in questo modo non si formassero quei vistosi rigonfiamenti della cute. 

La testa doveva essere fasciata con una spessa bendatura, chiamata ‘a scolla, la quale, applicata molto stretta, dava la sensazione di attutire il dolore. Tutt’oggi si suole dire l’espressione un po’ sarcastica:

…Tengo ‘e scolle nfronte!

Per indicare la presenza di problemi che fanno soffrire, paradossalmente e per paragone, come un mal di testa….! Anche per curare l’emicrania si eseguiva una bendatura alla testa, interponendo però foglie fresche di limone o fette di patate.
Le patate erano applicate anche sulle palpebre degli occhi, nei casi di abbagliamento. Mentre le cipolle (oppure le superfici metalliche di monetine o di lame di coltelli) si utilizzavano per lenire le zone del corpo punte da api o da altri insetti.
Per lenire i dolori reumatici e quelli muscolari si praticavano degli energici massaggi con tintura a base di alcol e canfora (o foglie di eucalipto), oppure a base di olio di oliva e ruta. Qualcuno usava anche l’acqua o l’olio benedetto.
La tintura a base di ruta veniva utilizzata soprattutto per curare il mal di gola, ungendo dolcemente il collo e coprendo successivamente la zona con un panno nero. La tintura si preparava ponendo gli ingredienti sopra un grosso cucchiaio e riscaldando il tutto sulla fiammella di una candela. Per sottolineare le grandi proprietà curative della pianta di ruta, gli anziani recitavano questo detto:

‘A ruta, ogni male stuta,
tranne pe’ jetteche e lli mali furute…!

Vale a dire: “La ruta sana ogni malattia, tranne la tubercolosi e le gravi ferite”.
Le bronchiti, le vene varicose e le altre infiammazioni venivano curate con i “salassi”, attraverso l’applicazione di sanguisughe (sanguette) su alcune zone del corpo del malato. Questi insetti, utilizzati fino a qualche anno fa anche negli ospedali pubblici, erano prelevati dai loro habitat naturali, costituiti da stagni e pantani.
Le antiestetiche verruche sorte sul viso e sul collo (porri), erano eliminate ricorrendo alle pratiche dell’immancabile “vecchietta” taumaturga del posto, la quale, recitando alcune litanie, provvedeva a strofinare tre fagioli su ognuna di queste anomalie. I fagioli venivano poi nascosti in un luogo ritenuto segreto. Si diceva che quando i fagioli marcivano, le verruche “trattate” scomparivano definitivamente… Con la linfa ricavata dal taglio delle viti qualcuno riteneva di curare le calvizie precoci.
Altre essenze botaniche utilizzate nelle cure di malanni venivano ricavate dalle foglie di sorbo, dalle foglie di ortica e da alcune parti della pianta di granoturco.

I bambini malati di “Pertosse” (tossa cummerziva,ossia “tosse convulsiva”), venivano portati (“esposti”) nelle stalle, perché l’aria umida respirata in questi luoghi era ritenuta, anche secondo alcuni medici, favorevole alla guarigione.
La diffidenza degli anziani verso la medicina ufficiale è molto antica ed è chiaramente espressa nelle parole di questo antico proverbio:

Dicette ‘o mmiereco, chest’ è ‘a ricetta
e che Ddio t’ ’a manne bbona…!

Al termine di questo racconto è obbligatorio sottolineare che le pratiche curative qui descritte, frutto di semplici deduzioni o intuizioni della civiltà contadina, non sono suffragate da verità scientifica e non sono da prendere da esempio per improvvisare cure mediche e rimedi, ma occorre far riferimento sempre alla medicina ufficiale.

Fonte Piscinolablog, fondato e diretto magnificamente da Salvatore Fioretto 


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