Don Lorenzo Milani, Priore di Barbiana e Testimone scomodo del Vangelo nella prima metà del Novecento

 

“L’opera del maestro non deve consistere

nel riempire un sacco,

ma nell’accendere una fiamma”

(Plutarco, 45ca-125 d.C.)

Foto dell'epoca. Fonte: Fondazione don Lorenzo Milani

 Articolo inviatoci dal prof. Luigi Trinchillo, in occasione dei 101 anni dalla nascita del grande prete-educatore

“Non si mangia pane bianco nelle strade dei poveri”.

“La povertà dei poveri non si misura a pane, si misura sul grado di cultura”.

Basterebbero queste due semplici frasi, estratte dagli scritti di Don Lorenzo Milani, per delinearne il personaggio.

Nato nel 1923 in una famiglia fiorentina benestante, di vivace intelligenza, pronto alla battura arguta ed appropriata e dal linguaggio ricco e gradevole, com’è tipico dei fiorentini, meravigliò chi lo conosceva quando, convertitosi al Cattolicesimo, decise di entrare in Seminario, per diventare Sacerdote. Ventiquattrenne, ricevette l’ordinazione e fu presto evidente che la scelta operativa del suo ministero sarebbe stata quella di vicinanza agli ‘ultimi’, ai più fragili, ai diseredati. All’epoca, la Chiesa era guidata da un Pontefice dalla figura ieratica e complessa, quale Pio XII, che tendeva alla conservazione di un’idea ecclesiale tradizionale, con poche aperture verso il mondo che, uscito dal dramma della Seconda Guerra Mondiale, aspirava, piuttosto, ad una nuova visione esistenziale. Don Lorenzo, che intraprese un cammino aperto al sociale e poco disposto ad adeguarsi passivamente e ad accettare il ruolo del Sacerdote “da Sacrestia”, si fece subito conoscere per le sue posizioni critiche verso la conservazione di un potere precostituito e senza possibilità di messa in discussione. Egli aveva compreso che la “vera povertà” del popolo consisteva non nella disuguaglianza economica fra i ceti: certo, questo era un dramma per molte famiglie operaie e proletarie, costrette quasi sempre a vivere sulla soglia dell’indigenza per i bassi salari e per lavori, spesso precari, come quelli agricoli, che non consentivano di godere di sicurezza e stabilità. Ecco, allora, che il prete, vicino alle fasce povere, si fece fama di “rivoluzionario”, di “socialista”, se non di “comunista”, dimenticando che fu Gesù Cristo stesso a contestare lo “status quo” che escludeva gli ultimi, i reietti e gli emarginati. Don Milani avviò, perciò, una propria personale “riforma” dell’impegno religioso, della Scuola e dell’Educazione, offrendo di impartire lezioni ai figli degli operai, dei contadini, dei mezzadri dei territori pastorali in cui si trovò ad operare (a San Donato, a Calenzano e, soprattutto, a Barbiana), suscitando consenso e ammirazione fra i ceti sociali più disagiati della gente comune, e critiche, all’inizio malcelate e poi sempre più evidenti, da parte dei confratelli e dei superiori, ai quali spesso le sue iniziative erano riferite in modo anche distorto. Il “metodo Barbiana” di Don Lorenzo, in realtà, consisteva semplicemente nell’essere “educatore”, non intermediario e interprete di una cultura da ceto sociale privilegiato, organizzata affinché tutto rimanesse com’era, pur mostrando che era tutta disposta al cambiamento.

Don Milani assunse presto anche posizioni antimilitariste e di contestazione del potere costituito (si era alla vigilia e poi nel pieno della cosiddetta “guerra fredda”), che non teneva conto delle vere necessità popolari, scegliendo di contestare posizioni di potere, anche religioso, acquisite nel tempo e derivanti da antichi privilegi. La Chiesa fiorentina, presieduta, all’epoca, dall’Arcivescovo Cardinal Ermenegildo Florit, friulano di origini, conservatore di fama e di fatto, tentò di farlo rientrare in schemi più tradizionali, imponendogli un quasi-esilio, assegnandogli sedi pastorali disagiate e isolate e vietandogli (o comunque suggerendogli) di non intervenire in iniziative pubbliche. Leggendo la biografia di Don Milani, non si può non notare che fu sistematicamente “punito”, almeno dal 1954, e seguito a ruota dai padri Ernesto Balducci, David Maria Turoldo, Giovanni Vannucci, con la nota formula promoveatur ut amoveatur (“Lo si promuova, per poterlo rimuovere”). I veri innovatori, tuttavia, possono essere ridotti, per qualche tempo, al silenzio, ma la Storia sa fare giustizia, sui tempi lunghi.

Furono anni si sofferenza per don Lorenzo che, con intuito a dir poco ‘profetico’, avviò delle iniziative che il Concilio Ecumenico Vaticano II avrebbe in seguito effettivamente accolto, esteso e imposto alla Chiesa Universale. L’indizione del Concilio, avvenuta a quasi un secolo dal precedente, nel 1959, da parte dell’anziano Papa Giovanni XXIII e le varie sessioni presiedute, prima dallo stesso “Papa Buono”, poi da Paolo VI, segnò vistose aperture da tutti i punti di vista (con riforme ecclesiali, del rito religioso, della concezione del ruolo stesso della Chiesa nel mondo contemporaneo): tutti elementi che avrebbero potuto dare ampia soddisfazione e certezza alla visione profetico-carismatica del Ministero Sacerdotale del Priore di Barbiana, ma una malattia non curabile lo sottrasse alla vita, a poco più di 40 anni, nel 1967. Sarebbe troppo facile concludere con un “Nemo propheta in patria”, in quanto la contestazione giovanile (e universale!) del Sessantotto, l’applicazione nel vivo delle Riforme previste dal Vaticano II, i provvedimenti sociali e politici che furono assunti a partire dalla seconda metà degli Anni Sessanta / inizio degli Anni Settanta, avrebbero potuto ristorare Don Lorenzo delle tante critiche che era stato costretto a subire nel tempo.

Perfino la sua esperienza educativa più nota, da lui sperimentata nella Scuola di Barbiana, sarà integrata e accettata e fornirà le basi strutturali alle varie riforme scolastiche che portarono ad innovare gli Studi in Italia, permettendo anche ai ceti sociali più disagiati economicamente di accedere all’istruzione, salendo su quell’ascensore sociale, che la preparazione culturale aveva fino ad allora riservato alle classi privilegiate. Osò, Don Lorenzo, prendere posizione anche contro la gerarchia militare, da sempre abituata ad imporre regole da rispettare senza discussione, pubblicando, nel 1965, un testo-cardine sul tema del rapporto con l’Autorità costituita di ogni tipo, che lo fece conoscere anche a chi non aveva mai prestato particolare attenzione alle sue prese di posizione religiose: “L’obbedienza non è più una virtù”, divenne un modo di dire e di pensare fra i giovani della prima generazione che non aveva conosciuto direttamente la guerra. Questo testo ebbe un notevole peso sugli orientamenti civili di quel momento storico e rappresentò un’altra “crepa” nella società chiusa, soprattutto del nostro Paese, che non era riuscita ad assorbire i cambiamenti del vento di rivolta di quegli anni. Certo, subito dopo comincerà la “strategia della tensione” e la lotta con metodi violenti dei movimenti armati (come le “Brigate Rosse”), che qualcuno volle interpretare come la conseguenza di quella circolazione dell’aria di protesta che Don Milani aveva messo in moto, operando non con il ricorso ad azioni aggressive, ma con le aperture al dialogo sociale, civile ed ecclesiale.

La Chiesa ha impiegato un po’ di anni a riconoscere che Don Lorenzo era da considerare un personaggio animato da spirito profetico: non a caso, sarà Papa Francesco a recarsi a Barbiana il 20 giugno 2017, tenendo un pubblico discorso nel prato adiacente alla Chiesa di Sant’Andrea, che rappresenta ormai  un punto fermo per la conoscenza del Priore di Barbiana e questo testo andrebbe letto da chiunque avesse intenzione di approcciarsi veramente e conoscere al meglio uno dei personaggi più importanti del Novecento, così come conservano tutta la loro freschezza le “Lettere da Barbiana” (1954-1967) e il già citato “L’obbedienza non è più una virtù”. Interessanti anche le “Lettere alla mamma” e ai familiari, nelle quali don Lorenzo Milani apre il suo animo alla riflessione più matura.

In esse, ad esempio, Egli racconta un episodio avvenuto nella Parrocchia di San Lorenzo di Calenzano. Mentre celebrava i funerali di una giovane donna, moglie di un dirigente comunista della locale “Casa del popolo”, al momento dell’Elevazione, il marito in lutto e disperato, alzando il pugno verso l’Ostia, gridò: “Questa non me la dovevi fare!” e giù una bestemmia pesante. Commentò Don Lorenzo nella lettera alla mamma: “E poi dicono che la gente non crede più in Dio”. L’episodio, nella sua semplicità, mette, a mio parere, in luce l’apertura verso nuovo che Don Lorenzo Milani seppe incarnare e gli conferisce ancora oggi attualità e valore iconico.

 

Prof. Luigi Trinchillo

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