Francesco Di Biondo, il sacerdote-poeta calvizzanese che andrebbe fatto conoscere alle giovani generazioni locali: è vissuto a cavallo tra il XVII° e XVIII° secolo
Francesco Di Biondo (1657-1716), il prof. Luigi Trinchillo: “andrebbe fatto conoscere alle giovani generazioni locali”
Francesco Di Biondo, sacerdote e poeta calvizzanese del Seicento. A questo personaggio decisamente poco conosciuto, se non addirittura sconosciuto, della Storia locale, il Canonico Don Giacomo Di Maria dedicò, nel 1978, un prezioso volumetto di approfondimento del suo valore e per ribadire la rilevanza storica della sua opera. [Potrebbe essere il caso e l’occasione, questa, per ristamparlo in copia anastatica, per far conoscere alle giovani generazioni locali Francesco Di Biondo e, magari, farne studiare qualche componimento poetico nelle nostre scuole calvizzanesi. Da notare che alcuni sonetti inseriti in tale testo di Don Giacomino Di Maria sono di gradevole lettura ancora oggi].
Il
Sonetto LXXXVII di Francesco Di Biondo
in latino maccheronico, tradotto
dal professor Luigi Trinchillo
in versione libera per il volume:
Francesco Di Biondo
Calvizzanese
Sacerdote e poeta del ‘600
di Don Giacomo Di Maria.
*********************************************
<< Ad un amico troppo
impegnato
negli esercizi della caccia >>
Sonetto LXXXVII
[Originale in latino
‘maccheronico’]
Quid ibi istud saevire in aves,
sportulam qualeis onerare dives,
et pallottinis fulminare cives
aeris turdos, mallardosque graves?
Dic mihi Gaber currere non paves
qui saltus omnes per gelus, per nives?
Ah! Longe voles, si tu longe vives
nullos dierum ducere suaves.
Rustica genia semper in nemoribus
canum latratu acta, atque verboribus
sclopi ferire poma cum arboribus.
Timeo ne tu bellum cum anseribus
semper dum velis in tantis laboribus
sepelias temetipsum in funeribus.
**********************************
[Traduzione libera del
componimento]
Che cos’è questo rincrudelire contro gli uccelli,
Questo appesantire la sporticella già piena di
quaglie?
E perché continui a fulminare con le pallottole i
tordi,
Agili abitatori dell’aria, ed i pesanti mallardi?
Dimmi, Gabio, non ti viene mai paura, mentre corri
Senza sosta per luoghi ghiacciati e cime nevose?
Oimé! Volerai lontano, ma se vivrai a lungo,
Non conoscerai alcun giorno lieto.
Nei boschi la gente campagnola deve cercar riparo
Al rintronar del latrato dei tuoi cani, e i tuoi
colpi
Spingono i pomi a ferire i teneri rami.
Comincio a temere che tu, mentre conduci la tua lotta
Personale contro le oche, tutto preso dalle tue
fatiche,
Finirai per portarti da solo nella tomba.[1]
*******************************
Commento originale al sonetto riportato sopra,
dal testo di Don Giacomo
Di Maria,
autore del Libro su Francesco Di Biondo[2].
Ho trascritto questo componimento “maccheronico” nel testo originale e nella traduzione libera dell’egregio concittadino Prof. Luigi Trinchillo (che pubblicamente ringrazio) quale saggio del “poetare” in latino, (un onesto passatempo, come ho già accennato) non messo in evidenza da alcun glossatore del nostro autore. Il quale è un “verseggiatore”, oserei dire poeta latino minore, “barbaro” nel significato carducciano in senso molto lato. Ma all’opposto del “fiero Maremmano” che mutò forme metriche latine e greche per le sue armoniose “Odi barbare”, il Di Biondo mutò forme metriche italiane per i suoi “Sonetti” e i “Carmina baccanalia”, per cui la sua poesia (?) latina suonerebbe barbaramente all’orecchio degli antichi che l’ascoltassero, e come suona all’orecchio degli studiosi moderni.
E volutamente il nostro poeta si mostra contestatore – e
forse n’è il primo – alle leggi metriche classiche latine. Egli stesso è a dircelo[3].
Mentre, difatti, afferma che sa “scrivere un po’ di latino” e a prova cita due
opere che però non sono riuscito a trovare: <Centuria di epigrammi di cose
varie> e <Fabulometria di Esopo, portato al verso>, ci tiene ad
avvertire <l’amico let(t)ore di non scandalizzarsi se usa una latinità stravagante non soggetta a
quantità di sillabe, non osserva elisioni di vocaboli tralasciando le regole
prescritte per la metrica classica latina … usando vocaboli plebei, goffi (e
come ho detto li usa anche per le “rime” nel dialetto di Dante), formule non
grammaticali, accozzamento di rime all’uso italiano per dimostrare che i suoi versi latini possonsi
rimare come quelli italiani, e concordanza con le rime che non è permessa in
latino.
Egli osa perfino scrivere componimenti latini sullo
schema del classico sonetto italiano (il componimento poetico più difficile
secondo gli stilisti), anche se lo stende a suo arbitrio. Ci tiene a dire che
“tutto fece senza regola, però non senza grazia”.
Mi auguro che qualche studioso calvizzanese faccia
un’accurata esegesi delle poesie (quelle latine sono riportate alla fine della
Centuria II) dell’illustre concittadino che può essere incluso tra i poeti minori
del ‘600, a dispetto del Carducci[4],
ed essere considerato un “rappresentante – anche se modesto – della tradizione
umanistica, che a Napoli, specie nelle scuole ecclesiastiche, aveva avuto insigni
assertori”[5].
Francesco Di Biondo (1657-1716), il prof. Luigi Trinchillo: “andrebbe fatto conoscere alle giovani generazioni locali”
Francesco Di Biondo, sacerdote e poeta calvizzanese del Seicento. A questo personaggio decisamente poco conosciuto, se non addirittura sconosciuto, della Storia locale, il Canonico Don Giacomo Di Maria dedicò, nel 1978, un prezioso volumetto di approfondimento del suo valore e per ribadire la rilevanza storica della sua opera. [Potrebbe essere il caso e l’occasione, questa, per ristamparlo in copia anastatica, per far conoscere alle giovani generazioni locali Francesco Di Biondo e, magari, farne studiare qualche componimento poetico nelle nostre scuole calvizzanesi. Da notare che alcuni sonetti inseriti in tale testo di Don Giacomino Di Maria sono di gradevole lettura ancora oggi].
[1] Dal volume “Francesco Di Biondo. Calvizzanese.
Sacerdote e poeta del ’600” (Napoli, 1978), di Giacomo Di Maria, alle
pagine70-71.
[2] Sono qui riportate le pagine 73 e 74
del volume in oggetto.
[3] CFR Prefazione alla serie III della Centuria II,
pag. 84. (Nota dal testo originale).
[4] Questi, nella prefazione a “Lirica di
Annie Vivanti, Treves, Milano, 1890”, dice: “Nel mio codice poetico è scritto:
Ai preti e alle donne è vietato far versi”. La scrittrice giornalista Cicinnati
l’ha così parafrasato: “Difficilissima cosa per (un prete) e una donna esser
poeta”. CFR Il giornale “Roma”.
[5] CFR Trifone R. Università degli Studi di Napoli,
1954, pag. 132.