“A Chiesa da’ Maronna’Razia”, Enzo Salatiello: “la terza strofa è di una bellezza filosofica disarmante!”

                                       

“O’ ver ammore nunten padrone, nun è rrobbatoje”

La struttura della bella poesia di Gennaro Ricciardiello assomiglia al periodo d’oro delle “canzoni rinascimentali” a “stanze composite” di Ariosto, del Boiardo o se si preferisce, il De Medici (Lorenzo). Ma questo solo sul piano stilistico, egli scrive con l’ausilio un “vernacolo” anomalo, ma, come ben dice lui stesso: in una lingua, quella napoletana, riconosciuta dall’UNESCO. Sul piano contenutistico egli descrive un ambiente fissato in un arco temporale (la sua vita e le tappe importanti) e spaziale, (Calvizzano e la chiesa di S. Maria delle Grazie). Ma la sua visione è solo apparentemente soggettiva. Egli con lo “srotolamento sinottico” della tavola dei ricordi ci porta in un mondo, che per uno come me, quasi suo coetaneo, ha modo di ritrovarsi e di rivedersi. La prima strofa sottolinea la sua infanzia, il bambino in chiesa non può abbracciare quei concetti, non comprende la liturgia né i discorsi però, essendo dotato di “orecchio” speciale, peculiare dei bambini,  avverte che quell’ambiente è benigno e ricovero per la sua coscienza. Poi sviluppa un ragionamento molto chiaro: “Calvizzano non è così speciale, ma la chiesa sì”: tutti ce la invidiano e riconoscono il suo valore”.  Egli delinea un teorema geometrico dove al centro del cerchio è posta la chiesa, che irradia la via a tutti, dove il cerchio è la comunità. La seconda strofa procede agevolmente e descrive che con la fine dell’infanzia egli, un po’ come tutti i giovani, si è allontanato da essa. Ma Gennaro paragona la chiesa a una grande madre che non si cura tanto del fatto che i figli corrano lontano perché lei, da vera madre li aspetta tutti e per sempre. La Madre-Chiesa ti aspetta! Per la vita. Qui vi è descritto il secondo passo importante, egli torna in chiesa per sposarsi e riveste quel giorno importante, mettendo in scena un atto simbolico molto forte: un patto, tra uomini, quello che si stipula non con carta e firma ma, con un’occhiata. Come avviene tra veri uomini. Due veri uomini alleati per la felicità di una ragazza. Se mi posso concedere licenza, la realizzazione del patto ha avuto luogo, la sua, è un’ottima famiglia. Secondo Gennaro il vero amore è una forza della natura o di Dio che compie il prodigio di liberare l’individuo sotto chiave come un prigioniero in quanto senza amore e con un soffio leggero ti fa volare, qui la gravità non conta. Spesso abbiamo sentito frasi del tipo: “L’amore ti fa volare”. Metafora dolce e potenteLa terza strofa è di una bellezza filosofica disarmante! Non a caso ho voluto creare un INCIPIT alla poesia con il verso iniziale di questa sestina. Il discorso ora non è più narrativo ma introspettivo: egli analizza l’amore come forma di energia in continuo movimento e senza una proprietà. Qui concepisce l’amore libero da qualsiasi appartenenza e dalle fattezze quasi anarchiche. Egli sa, che come è toccato a lui, così i suoi figli, risultato del vero amore e del patto, faranno la stessa cosa, si sposeranno. Egli stavolta proverà l’inevitabile dolore di una separazione necessaria dai figli ma poi, la stessa espressione felice degli sposi che ebbe lui, annienterà questo cupo sentimento. Qui troviamo un’altra potentissima riflessione dotata di una forza invalicabile: l’amore, secondo Gennaro, è in grado di passare per osmosi attraverso le generazioni, gli anelli della catena sono diversi (padri e figli, madri e figlie) ma il seme, il carattere genetico dell’amore resta invariato. Il miracolo si ripete, questo ha reso possibile la permanenza del genere umano sulla Terra. Davvero importante come intuizione filosofica. La chiesa assume nella strofa successiva una funzione di memoria e di conservazione di ricordi preziosi, tappe fondamentali della vita: nomi di persone e funzioni che testimoniano tutto l’arco dei Sacramenti cattolici: battesimo, prima comunione, cresima, matrimonio e chiaramente funerali. Gennaro restituisce alla chiesa la doppia funzione di custode e fautrice degli eventi cardine della vita di una persona, tra i banchi di una chiesa, le lacrime di gioia e di dolore si incontrano quasi su un terreno mobile dove lo stesso soggetto vestirà tutti i panni. Il Crocifisso è testimone delle vicende di ognuno degli uomini e delle donne che in chiesa hanno pregato, chiesto, capito, non capito, sperato, insomma tutto il corollario di questioni che le anime della Grande Madre Chiesa accoglie. Il pavimento è fondo che accoglie tutti i peccati confessati ed estinti, tutte le promesse mancate di una vita più degna, “fujmme cà quannochiove e o’ tiemp nun è buon” costituisce un’altra possente figura retorica disciplinata da un senso filosofico: quando arriva la tempesta nella vita noi scappiamo al riparo, dove? Tra le braccia di madre-Chiesa naturalmente. Secondo Gennaro tutto ruota intorno alla chiesa di Calvizzano, ma più in generale alla Chiesa-comunità ovviamente. Con braccia aperte ci lasciamo cadere tra le mura della chiesa e con le stesse braccia che possiamo fare se non abbracciare un nostro prossimo che vive la più atroce delle tragedie: la perdita di un figlio, un bambino. L’immagine della bara bianca fa molto male! Il pezzo successivo è il continuo di quello precedente, qui si chiede cosa si può dire a una persona che perde un figlio piccolo? Non esistono parole, fateci caso, una persona colpita da grave lutto non è sensibile a nessuna delle parole conosciute. Semplicemente non esistono, perché la morte di un piccolo caro non è di questo mondo, quindi alieno, niente parole capaci di consolare dunque. Se abbracci un fascio di una qualsiasi cosa può solo restare ritto in piedi, null’altro. Si condivide l’amaro fino a che non lasciamo la chiesa e… il fascio cade! Bellezza espressiva pura e cruda. Qui troviamo una “similitudine” poetica che è molto frequente, il bambino che scappa dalla mano del padre per esplorare il mondo, per sentirsi adulto ma poi, al primo angolo si gira per guardare indietro, questi sono i figli di Madre-Chiesa, indomiti viaggiatori, finché non arriva la solitudine e si ritorna dalla madre, che accoglie tutti, perché è “E’ ariosa e bella a Chiesa da Maronna a Razija”. Qui avviene una doppia lettura della chiesa e della Chiesa (istituzione). Essa è grande a spaziosa, quella di Calvizzano, ma è grande soprattutto perché “CATHOLICUS” dal latino, universale, non grande ma, coincidente con tutto l’Universo! La penultima strofa si riferisce ancora una volta all’edificio calvizzanese: le pietre della stessa sanno accoglierti. Queste pietre custodiscono tutte le passioni e le vicende prima elencate degli uomini e delle donne e se nell’entrarci, ti si apre il cuore, ciò è dovuto al fatto che ad accoglierti, è Lui! Il Padrone di casa! È Dio che ti apre la braccia. Beh, l’ultima strofa è intrisa di una dolcissima ironia sotto forma di una richiesta: con l’acqua santa del battesimo io mi sono salvato, quando morirò, e varcherò per l’ultima volta la porta di uscita della chiesa ma della vita stessa, voglio una chiesa di gente allegra che celebra la mia salvezza, non la morte fisica. L’appello, con tutta probabilità è rivolto ai calvizzanesi, ma dovranno aspettar ancora un secolo. Una parola sulla sintassi, qui non è importante davvero, Gennaro ha detto bene, la lingua napoletana va parlata, perché in quanto a scriverla, risulta complicato come il tedesco. Essa è una lingua musicale, teatrale, letteraria e poetica, con un
suono e un’armonia uniche al mondo.

Enzo Salatiello

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