Intervista a Gaetano Bonelli, artefice del progetto Museo di Napoli e direttore del Museo dedicato al grande tenore Caruso: "mi batto soprattutto per fare in modo che i giovani conoscano la loro storia, non possiamo guardare e ambire a un futuro se non conosciamo e valorizziamo il nostro passato. Il rammarico: non essere riuscito a inaugurare la fototeca storica di Marano"

                                               

Collezione Bonelli, la più grande raccolta antropologica al mondo dedicata ad una Città, l’unica, che contempla ben venti aree tematiche. Un universo napoletano, che consta di oltre diecimila reperti suddivisi tra cimeli, documenti e curiosità, grazie ai quali è possibile scoprire e vivere le emozioni di una Napoli ancora inedita e oltremodo affascinante

Abbiamo intervistato il giornalista e cultore di storia patria Gaetano Bonelli, che ci ha ospitato presso la Fondazione Casa dello Scugnizzo, sede dove è esposta parte della sua variegata, trasversale ed affascinante collezione. Filo conduttore della raccolta Napoli in tutte le sue sfaccettature, raccontata attraverso reperti che spaziano dall’emigrazione ai trasporti, dall’enogastronomia all’urbanistica, all’aspetto ludico, all’economia e finanza, e tanto altro.

Dottor Bonelli, come nasce l’idea di allestire un museo che ha riscosso un così grande successo anche a livello internazionale?

Nasce dalla consapevolezza del fatto che questi reperti, che  ho recuperato con dedizione, con amore, con grande abnegazione, non sono miei: sono parte integrante della nostra comunità, della nostra amata Napoli. Sono tante tessere che io custodivo a casa, diventata oggetto di visite da parte di studiosi, di autorità, di appassionati. La mia casa, però, era un luogo inidoneo e angusto, più di quanto non lo sia attualmente la stessa sede che mi ospita, la Fondazione “Casa dello Scugnizzo”. Ad un certo punto, quindi, quando la raccolta assunse una dignità museale e una dimensione tale da meritare di essere esposta al grande pubblico, mi incominciai a porre l’obiettivo di farne un museo, per fare in modo che queste testimonianze potessero essere fruite, conosciute, studiate, ammirate da tutti, dagli appassionati, dagli studiosi. Ovviamente la ricerca della sede non è stata facile; ho avuto tante promesse in questi anni dagli amministratori, dai vari enti, che si sono però tradotte in altrettante delusioni. Invece il presidente della Fondazione Casa dello Scugnizzo, il professor Antonio Lanzaro, mi mise a disposizione gli ambienti dove ormai da quasi sei anni ho allestito il Museo Di Napoli, così denominato perché tratta della storia della città da un punto di vista demo-etno-antropologico, almeno degli ultimi trecento anni. Questa raccolta, per certi aspetti, tende quindi all’ambizione di colmare un vuoto, in luogo delle tante raccolte spettacolari dei musei scientifici, delle arti applicate, che fanno di Napoli una città d’arte a livello internazionale. È nato, quindi, questo museo che racconta la storia della città nel suo vissuto quotidiano.

Vuole illustrarci la documentazione custodita nella sua collezione?

Questa è un’impresa ardua, perché in realtà è un repertorio talmente articolato e variegato che c’è l’imbarazzo della scelta di cosa mostrare e a cosa dare maggiore risalto. È un corpo articolato che ha, però, una matrice unica riconducibile alla città di Napoli. Ci sono venti aree tematiche, dall’emigrazione ai trasporti, dall’enogastronomia all’urbanistica, all’aspetto ludico, all’economia e finanza con gli antichi banchi napoletani, il Banco di Napoli in testa; ancora il teatro, l’aspetto giuridico, religioso e tanto tanto altro. Si ha, quindi, la possibilità di fare un viaggio onirico nella memoria, scoprendo le tante Napoli delle meraviglie, perché nei vari ambiti, nei vari aspetti la città ha dato prova di essere all’avanguardia, di essere pioneristica, di avere delle peculiarità che ne fanno un unicum a livello veramente planetario. E ci sono, poi, le curiosità, c’è la foto più piccola al mondo che raffigura Napoli, ci sono documenti eccezionali di quella che è stata la banca più antica al mondo. E mi sta particolarmente a cuore proprio il recupero di queste testimonianze perché, laddove si è decisa in maniera scellerata e criminale la soppressione di questo istituto di credito napoletano che era vanto della nostra città e del Meridione tutto, recuperarne la memoria attraverso le testimonianze e dar vita ad una serie di iniziative, come ogni anno faccio, significa quanto meno fare in modo che il tutto non si disperda. Quindi ecco l’importanza della memoria, dei reperti e della divulgazione soprattutto. Queste testimonianze le ho sempre intese come un qualcosa che andava condiviso e mostrato; ecco perché l’esigenza di dar vita a un Museo di Napoli, perché, soprattutto le giovani generazioni, le scuole, venendo qui, hanno la possibilità di fare una full immersion nella storia della città, scoprendo aspetti inediti e che, in ogni caso, nessun programma scolastico, nessun testo tende a proporre. Diventa, quindi, davvero un’esperienza, dal punto di vista emozionale e civico, oggettivamente straordinaria per le nuove generazioni. E lo dico anche con cognizione di causa perché, quando ho avuto il privilegio di avere delle scolaresche da me, ho avuto dei riscontri entusiasmanti e i ragazzi, a dispetto di quanto per giustificare il proprio disimpegno gli adulti dicono-che non  mostrano interesse e che sono distratti: mi hanno, invece, manifestato non solo grandissimo interesse e curiosità ma, cosa ancor più bella, affetto e gratitudine, perché sono entrato in sintonia con loro, giocando e manifestando in maniera non accademica, algida, tediosa, quella che era l’esposizione delle testimonianze. È nato con loro un rapporto di piacevole dialogo, a riprova di come i ragazzi abbiano sensibilità, cuore e grandi energie. Sono il futuro, sono il patrimonio di un anello di congiunzione per tramandare certi valori e certe testimonianze, che non va rescisso. Ecco perché noi abbiamo un grande dovere che purtroppo, spesso, viene disatteso. Quindi io mi batto qui soprattutto per fare in modo che i giovani conoscano la loro storia, perché non possiamo guardare ed ambire ad un futuro se non conosciamo, valorizziamo il nostro passato. Sono le radici dell’albero: se queste vengono recise, l’albero muore e non può andare nella continuità della sua vita.

C’è, dunque, questa ricchezza di testimonianze, di curiosità, c’è il manifesto più antico delle elezioni di Napoli, ci sono delle locandine teatrali di tutti i teatri storici napoletani; è davvero una miniera, una miniera che andrebbe, più di quanto non avvenga, valorizzata, divulgata. Purtroppo tutto quello che faccio, compreso le mostre, gli eventi, le visite guidate, l’acquisizione, compatibilmente alle mie risorse, di ulteriori elementi che contribuiscano a rendere sempre più unica e speciale questa raccolta, lo faccio con le mie energie che sono limitate ma al tempo stesso straordinarie perché è tale l’amore, la passione che io dedico a questa impresa. Tutto ciò, e mai me lo sarei immaginato, viene fatto con il silenzio, nel migliore dei casi, e talvolta con il boicottaggio subdolo delle istituzioni, al quale, però, fa riscontro l’entusiasmo, la partecipazione, la condivisione, l’amore di Sua Maestà il cittadino. Quello che sto portando avanti è un esperimento sociale, è un Museo che ha voluto un figlio di questa città, un po’ come avveniva nelle epoche romantiche quando i nobili, i borghesi illuminati mettevano a disposizione le proprie risorse per dar vita a delle attività filantropiche e culturali. I cittadini, in luogo delle istituzioni che continuano a manifestare disinteresse e distrazione, sono invece presenti a vario titolo, con le visite guidate, con gli apprezzamenti. E questa è davvero da considerare una grande attestazione di ammirazione, di fiducia, della quale mi dico orgoglioso e commosso, perché ho avuto dei riscontri straordinari di persone che, onorandomi della loro stima, hanno inteso supportarmi. Recentemente, grazie anche al sostegno dei Lions Partenope-Palazzo Reale, ho acquistato un reperto straordinario, un editto di Carlo di Borbone, datato 1° maggio, stampato ad Aversa il 7 maggio, vale a dire tre giorni prima l’ingresso di Carlo a Napoli il 10 maggio 1734. Il loro supporto non è da dare per scontato, sia perché la generosità va sempre rimarcata, sia perché non dobbiamo dimenticare che questo resta pur sempre un museo privato. Chiaramente questa raccolta l’ho messa a disposizione, com’era giusto e doveroso fare, della città, ma ne sono, per ovvi motivi, oltre che l’artefice anche il titolare. Quindi acquistare dei reperti per una raccolta privata, sebbene abbia ormai una dimensione, una valenza pubblica, è ancor più rimarchevole. Il rammarico, e questa è una battaglia ancora in corso, è quello di avere una sede consona in termini di spazi che mi consenta di poter esporre, in luogo del meno due percento che si vede, almeno il venti-trenta percento delle testimonianze.

Lei ha avuto tanti riconoscimenti nazionali ed internazionali e l’apprezzamento del pubblico che ha lasciato numerose recensioni positive anche su Trip Advisor. La sua collezione rappresenta un fiore all’occhiello della cultura napoletana. Non resta il rammarico che il suo Museo non sia nato a Marano?

Sono molto legato a Marano, perché Marano mi ha dato tanto, vi ho vissuto la maggior parte della mia vita. Ho iniziato l’attività giornalistica in giornali locali come “L’Attesa” e sono stato poi corrispondente del quotidiano nazionale “Il Mattino” per qualche anno. Ho avuto il grande onore, il privilegio e la responsabilità di essere amministratore di Marano, in qualità di Assessore alla Cultura e Vicesindaco. Una curiosità che mi fa piacere ricordare è che sono stato anche sindaco di Marano per una settimana, quando l’allora sindaco Mario Cavallo, per motivi di salute, mi trasferì per decreto sindacale, la delega. Probabilmente un evento mai verificatosi nella storia repubblicana.

Il rammarico sicuramente c’è perché credo che a Marano più che altrove sia necessario, opportuno, doveroso, ed era questo l’impegno che io mi ero prefissato ma che poi purtroppo per motivi di tempo -ci dimettemmo dopo dieci mesi- non sono riuscito a portare a termine. Di questo sono molto dispiaciuto e rammaricato; aprii alla città Palazzo Merolla, trasferendo lì l’assessorato ed assumendomi anche delle grandi responsabilità, perché non c’era ancora l’autorizzazione al rilascio di una serie di provvedimenti. Me ne assunsi, comunque, personalmente la responsabilità, dando vita ad un decisionismo che spesso manca agli amministratori. Realizzai, poi, un ciclo di mostre bellissime e il tutto doveva culminare con l’inaugurazione del Museo Civico di Marano di Napoli. Avevo già preso contatti con alcuni collezionisti, che si erano detti disponibili a donare delle fotografie. Avremmo, infatti, inaugurato la fototeca storica di Marano; io avrei messo a disposizione, donandoli alla città, i miei reperti ascrivibili a Marano. E stavo per avviare un contatto con il Museo Archeologico di Napoli per fare in modo che i reperti di San Marco, e non solo, presenti nei depositi di Marano di Napoli, potessero tornare in città. È chiaro che tutto ciò richiedeva tempo, richiedeva una partecipazione da parte della città, della maggioranza. Credo che Marano, che ha fatto scempio della sua storia, debba ripartire da essa. Basti pensare al Palazzo Baronale che fu abbattuto tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta; la Masseria Galeota; le masserie scempiate; i palazzi storici che versano in condizioni deprecabili. Tutto questo deve essere, quantomeno, tramandato attraverso testimonianze storiche. Avevo già pensato a come sopperire a certe lacune, dando vita a dei plastici, ad esempio quello del Palazzo Baronale, realizzato anche per i non vedenti con i nuovi sistemi tecnologici. Insomma, Marano è diventata una città dormitorio, un grande agglomerato urbano. Ma non merita tutto questo, perché è una città antica, che ha delle tradizioni. Penso, ad esempio, alle ciliegie della Recca, ai cestai; tutte queste cose andrebbero raccontate, messe in rete, per magari farne un museo civico di memorie tramandate, di racconti. Mettere tutto in rete, rendendolo fruibile ai giovani, significherebbe mettere un freno a quel senso di smarrimento, di anonimato e di mancanza anche di amore verso la propria terra che invece, con un centro museale che diventasse anche un centro studi, si potrebbe recuperare. Quindi io auspico che altri, un po’ sulla scia che avevo in qualche modo intrapreso, possano trarre spunto da questa desiderata, che non è una desiderata mia personale, ma mi auguro possa essere volontà comune. Certe cose si possono realizzare se la cittadinanza lo vuole. A chi dice che ci sono altre priorità, altre emergenze bisogna rispondere: posto che l’una non dovrebbe escludere l’altra, in realtà a Marano questo degrado, questa sciattoneria, questo abbandono scaturisce proprio dal fatto che è considerata una sorta di res nullius, una cosa da nulla. Il degrado chiama degrado, l’ignoranza chiama ignoranza, l’abbandono chiama abbandono. E allora ripartire dalla bellezza, dalla cultura significa da un lato dare un senso di appartenenza che si sta sempre più perdendo, e quindi difendere le proprie radici, il proprio territorio; dall’altro restituire un’identità ad un luogo che è diventato informe, anonimo. È importante, dunque, far rinnamorare i cittadini della propria terra, della propria comunità, fare in modo che si possa andare a Marano perché ci sono degli attrattori che creino un interesse culturale, turistico. Anche perché Marano è l’undicesima città della Campania per popolazione. Merita quindi un rispetto, un’attenzione, anche a livello di istituzioni regionali e nazionali che purtroppo non ci sono stati. Quando ci sono gli scioglimenti per infiltrazioni camorristiche bisognerebbe chiedersi che cosa si fa per evitare che ciò avvenga. C’è una formazione culturale quando si propongono le liste? C’è una risposta all’ignoranza, al degrado, alla delinquenza, offrendo l’antidoto della cultura? Il cinema “Lily”, poi denominato “G. Siani”, perché vi hanno fatto una grande speculazione facendo uno spergiuro nei riguardi di Siani, usando il suo nome in maniera indebita, quando lo chiudono che contributo hanno dato al riscatto della città? E allora il cinema, il museo, la villa comunale col Ciaurro, che potrebbe essere motivo di vanto se non fosse degradato ed abbandonato, dovrebbe essere il punto di partenza di un corretto amministrare e di un rispetto delle preesistenze della comunità. Per fare tutto ciò, però, c’è bisogno di uno sforzo congiunto, che vada al di là delle risorse esigue, delle peculiarità, al di là dei meriti o demeriti degli amministratori. E allora Marano potrebbe diventare un caso nazionale, necessita di energie e di risorse particolari per vincere, un po’ come sta avvenendo a Caivano. Ma non bisogna arrivare al caso eclatante: Marano sciolta per infiltrazione, Marano città che non offre degli standard qualitativi minimi degni di una città del terzo millennio. E allora bisogna mettere insieme le istituzioni. Avevo pensato ad esempio anche di coinvolgere l’“Accademia di Belle Arti”, coinvolgere i giovani, creare una sinergia tra loro e l’Accademia; individuare degli spazi degradati per realizzare dei murales, dei mosaici, creare delle sculture; dar vita a delle piazze dove ci siano fontane funzionanti e manutenute. C’è bisogno di bellezza. Il degrado abbrutisce, crea un senso di smarrimento. Bisogna invece partire dalla bellezza, coinvolgendo i giovani, che devono essere i protagonisti di questo riscatto. E anche iniziative come il Marano Spot Festival, che spesso sono anche oggetto di strumentalizzazioni e speculazioni, devono essere oggettivamente un qualcosa che possa essere un contributo al rilancio, identificando il territorio, come è avvenuto per esempio al Giffoni Film Festival a Giffoni Vallepiana. È necessario un lavoro di squadra, sinergico, sincero, motivato, strutturato; non deve essere fatto per favorire la visibilità o l’utilità opportunistica del singolo, perché altrimenti resta una cosa fine a se stessa. L’elemento da cui partire deve essere l’entusiasmo, il sincero credo e l’adoperarsi e non ci sono ostacoli che tengano. Ma bisogna crederci e crederci significa potersi adoperare, fare la propria parte e non avvertire il peso del sacrificio, dell’impegno e dell’abnegazione che richiedono certe operazioni che sembrano, a giudicarle da lontano e in maniera distaccata, impossibili ma possono diventare realtà grazie alla passione e all’amore.

Ad ottobre parte della sua collezione relativa all’emigrazione italiana nelle Americhe sarà nuovamente esposta negli Stati Uniti. Da dove nasce questa prestigiosa collaborazione?

Ecco questo rientra nel discorso della collaborazione, del lavoro di squadra. Ho avuto l’opportunità, il vantaggio di avere amico il giornalista Luigi Liberti con il quale, già dal 2009, parlavamo di fare una mostra in America sull’emigrazione. Quattordici anni dopo, dopo averla proposta qui alle istituzioni locali, le quali ci hanno sempre graziosamente o non risposto affatto o risposto picche, Liberti, entrando in contatto con il direttore di Studi Italiani di Cultura di New York, gli parlò di questa mia raccolta, di questa enorme potenzialità. Il direttore Finotti venne qui a Napoli, visitò la raccolta, il Museo, e in particolare la collezione ascrivibile appunto alla sezione dell’emigrazione. Diede il suo entusiastico parere e questa cosa si è poi tradotta nella mostra che abbiamo realizzato sotto l’egida del Ministero degli Esteri, inaugurata dal 28 giugno fino al 28 agosto. È stata, devo dire, senza trionfalismi sterili, un vero e proprio trionfo. C’è stato un coinvolgimento della comunità locale italo-americana, delle istituzioni locali, il console, l’ambasciatore, veramente ad altissimo livello. E ci hanno chiesto di renderla itinerante, tant’è che adesso, ad ottobre, la NIAF (la massima organizzazione mondiale dell’emigrazione), nel suo evento annuale, ci ha chiesto di poter esporre queste testimonianze e a Washington sarà riproposta questa mostra. Quindi in questo caso il nemo profeta in patria ha avuto più che mai ragion d’essere perché qui in Italia di questo evento internazionale, la più grande mostra mai realizzata sull’emigrazione in America, se ne è parlato pochissimo e si è cercato di fare di tutto per omettere questo evento che, invece, in America ha avuto talmente successo che diventerà itinerante. A Washington, che sarà imminente, seguiranno poi altre tappe. Ecco questo succede quando le logiche nepotistiche, clientelari, le invidie, a volte anche le ruberie non riescono a dar vita a quello che, invece, dovrebbe essere un lavoro di sinergia, nell’interesse della collettività, per amore della cultura. In questo spazio di libertà, di cultura e di bellezza si portano avanti iniziative nell’interesse precipuo della divulgazione, della bellezza. Come sancito dalla nostra Costituzione, che spesso diciamo essere tra le più belle del mondo, ma anche tra le più disattese, la cultura deve essere patrimonio di tutti, tutelata, un qualcosa che arrivi ovunque. Dunque, specialmente quanti sono impossibilitati ad accedervi per i vari impedimenti, non solo di natura economica, devono essere i primi beneficiari e fruitori della bellezza, della conoscenza e della cultura. Nel mio piccolo è quello che cerco di fare e devo dire che le soddisfazioni sono straordinarie e ripagano i sacrifici profusi per portare avanti questa iniziativa.

Lei è anche direttore del Museo dedicato al grande tenore Caruso. Ci sono dei progetti futuri? Quali sono i prossimi obiettivi?

Il Museo di Napoli-Collezione Bonelli e la Casa Museo Enrico Caruso sono ovviamente due realtà molto seguite, amate da una bella fascia di napoletani che ci hanno onorato di una visita, ma anche dai turisti che vengono da ogni parte del mondo. Ci sono, dunque, tante iniziative come le mostre. Per quanto riguarda la Casa Museo Caruso abbiamo istituito un premio internazionale Casa Museo Enrico Caruso, che abbiamo conferito a Jonas Kaufmann (tenore tedesco, ndr); abbiamo dato vita alla Gran Medaglia alla carriera, che fu conferita a Francesco Canessa, il decano dei Carusiani, ex sovraintendente; la Targa alla Memoria, che tributammo a Mario Del Monaco. E adesso ci saranno le seconde edizioni di questi premi. A dicembre ci sarà, peraltro, un concorso internazionale di canto lirico; e ancora convegni, eventi, una serie di mostre in programma che realizzerò con il Museo di Napoli. Ogni anno, il 26 novembre, realizzo un evento, che non vuole essere nostalgico ma si configura come un monito affinché non si ripetano più queste sciagurate iniziative, per ricordare il Banco Di Napoli (il 26 novembre 2018 fu l’ultimo giorno del Banco di Napoli). E insomma il calendario è ricco di iniziative. Però c’è bisogno di sempre più partecipazione, più condivisione per fare in modo che tutte queste iniziative possano diventare sempre più dirompenti, sempre più delle realtà consolidate, che diventino delle opportunità di crescita, di riscatto, di emancipazione, di conoscenza, di cultura, di bellezza, del nostro territorio. Per quanto concerne i progetti futuri io ho un altro piccolo, grande sogno: mi sto attivando per fare in modo, e lo potrei inaugurare stasera se ci trovassimo in un’altra realtà, che nasca finalmente il Museo dell’Emigrazione. Potrebbe nascere con tutto il repertorio che metterei a disposizione. L’ideale sarebbe farlo nella meravigliosa palazzina dell’Immacolatella, da dove partirono gli emigrati, la nostra Ellis Island. È un dovere che abbiamo nei riguardi dei nostri progenitori. Si parla di Made in Italy, si parla di bellezza italiana, proprio grazie a questi pionieri che esportarono la nostra italianità. Napoli dovrebbe ricordare. Com’è possibile che a tutt’oggi non ci sia un museo che ricordi un episodio così fondamentale della storia del nostro paese? La mia disponibilità c’è assolutamente; mi auguro, però, di non doverlo fare da solo.  

Martina Maja

Altre foto a cura di Martina Maja


 

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