“Ciccio ‘o mugnanese”, ovvero lo specchio della nostra anima

“Ciccio ‘o mugnanese”, la recensione della lirica di Paolo Ferrillo declamata da sua sorella Gianna

Paolo e Gianna 

Nella tradizione poetica napoletana esiste un doppio binario che va oltre la normale interpretazione metrica e musicale propria della costruzione lirica: Di Giacomo, Viviani, Russo, Bovio e tanti altri, intendevano la poesia saldata alla musica e così che a Napoli abbiamo un patrimonio sterminato di canzoni e liriche. Esistono tuttavia realtà per così dire “non conosciute al grande pubblico” ma che sono altrettanto opere mature. Un nome che mi impressiona da sempre è Paolo Ferrillo. Capace di “dipingere” epoche e scene che sebbene lontane dall’iconografia classica partenopea della grande produzione di fine secolo ottocento – inizio novecento, egli riesce a inserirsi nel filone esistenzialista veristico degli anni ’70 del secolo scorso. Questa bellissima e tenerissima lirica: Ciccio ‘o mugnanese ci restituisce l’aria, il profumo e la vita di quel periodo con personaggi realmente esistiti che lasciando la vita, riescono a ritornarci grazie a queste poesie. Le strofe sono scene che si succedono entro i limiti di una continuità “per immagini”, questo strano ma autentico personaggio irrompe con la sua innocenza portandosi dietro un cardellino in una gabbia. L’uccellino deve imparare a cantare; metafora di una sua sperata collocazione nel mondo di quelli che “sanno” com’è la vita e di come ci si sta; insomma di quelli che contano! Il fabbro, che possiede i cardellini che dovrebbero impartire le loro lezioni e altri personaggi, sebbene molto incisivi per lo sviluppo costruttivo della lirica, sono soltanto satelliti che ruotano intorno alla dicotomia simbolica: “Ciccio e il suo cardellino”; metafora di ognuno di noi che vuole realizzare se stesso attraverso la chiave interpretativa della natura dominatrice che tuttavia questa volta vediamo dominata (il cardellino in gabbia). Ferrillo sembra un cantastorie di quelli che a Napoli abbondano, in realtà egli è in grado di accendere in noi il motore del ricordo e trasformarlo in un processo dinamico e creativo a ritroso e impegnarci in un dialogo con quel mondo ormai scomparso. Si tratta di un vero paroliere capace di scrivere canzoni che hanno una loro vita autonoma dalla poesia stessa che in questo caso, sembra assomigliare molto alle ballate popolari dove personaggi e contesti riprendono prepotentemente vita! Le sue opere finiscono per diventare piccole scene cinematografiche neorealistiche non in bianco e nero bensì traboccanti di mille colori, suoni quotidiani, scene impresse in una tela. Ecco perché queste preziosissime liriche di Paolo Ferrillo piacciono a tutti. Egli riesce a ricreare uno stile dinamico quasi come una sorta di “cubismo” in movimento che musica, cinema, pittura e poesia consistono e convivono tutti insieme in un humus ormai cristallizzato nel ricordo. Tutto questo è ulteriormente impreziosito dalla sapiente e godibilissima interpretazione della signora Gianna sua sorella, un perfetto bilanciamento di accenti, toni e modulazioni vocali che trasformano questa meravigliosa lirica in una scena teatrale dove pare arrivarci il preziosissimo patrimonio di voci di sottofondo e vite vissute. Tralasciate le cose che state facendo, sistematevi in una stanza nella penombra, chiudete fuori la modernità, abbandonatevi per pochissimi minuti in una poltrona e chiudete gli occhi: la voce della signora Gianna vi trascinerà delicatamente in un mare fantastico di ricordi e passioni, i versi di Paolo Ferrillo brillano di luce propria. Questa opera potrebbe essere sicuramente rappresentata sulle tavole di un palcoscenico teatrale. Un vero piccolo tesoro che splende nella stanza più remota del nostro cuore, i vicoletti di Calvizzano, riprendono vita! Complimenti a loro due e a Domenico Rosiello a cui va riconosciuto il suo infaticabile lavoro di ricerca della bellezza e della cultura della nostra gente.

Enzo Salatiello

 

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