Chiaiano, a casa dell’90enne generale Giovanni Baiano si respira “Aria di cultura”: l'articolo che gli dedicammo a novembre 2021

                                           

Del Generale Baiano ne avevo sentito parlare nel corso dei miei continui sopralluoghi, alla ricerca delle antiche masserie di Marano e dintorni (Mugnano, Chiaiano, Marianella…). Un giorno decisi di bussare alla sua porta: “Generale, sono un giornalista, vorrei conoscerla”.

“Mi dia il tempo di vestirmi: ci vediamo tra mezz’ora”, rispose garbatamente.

Mi accolse in una stanza piena di libri, cominciai fin da subito a respirare aria di cultura. Alla fine dell’incontro, parlammo circa un’ora, mi regalò diversi libri, una parte della sua vasta produzione: “Generale, gli dissi nel salutarlo, li “divorerò”. 

Mi diede un leggero tocco di commiato sulla spalla: “Mimmo, affermò con un semplice sorriso sulle labbra, diamoci del tu: in fondo siamo colleghi”.

Mi.Ro.  

Il suo amore smisurato per la Masseria delle Cesinelle, di località Casaputana, al confine con Marano: “abbandonata a se stessa, sta morendo a poco a poco ed io sto assistendo alla sua agonia senza poter far nulla, se non dedicargli dei nostalgici versi"


Ogni lettore attento, sfogliando le numerose opere di Baiano (suo nonno era maranese), non può non rimanere affascinato dall’amore che nutre per la “Selva di Chiaiano”, in particolare per la “Masseria delle Cesinelle” (di località Casaputana, al confine con Marano e con la discarica di Chiaiano), dove è nato e vissuto fino alla partenza per il servizio militare.   

In questo ambiente, dalle caratteristiche ancora un po’ bucoliche, Baiano ha trascorso gli anni più belli della sua giovinezza. Della masseria è rimasto ben poco, ma il suo amore smisurato per le splendide e rigogliose selve e fertili campagne, snaturate dalla mano dell’uomo, è rimasto immutato.

E’ questo il meraviglioso mondo che m’è rimasto dentro – scrive l’autore nel libro “Canti delle Cesinelle” – e, quando i ricordi si svegliano, cercherò sempre di accontentarli, anche se la mia voce si fa sempre più rauca e fioca per l’amarezza e la vecchiaia, e meno gradevole all’orecchio di chi non vuole ascoltare, per intervenire e bloccare il degrado”.

Biografia  

Giovanni Baiano è nato a Chiaiano, quartiere di Napoli, nel 1932, sposato, tre figli. Laureatosi in giurisprudenza, dopo il servizio militare svolto con il grado di ufficiale di complemento, intraprese la carriera nella Polizia di Stato, raggiungendo il suo apice col grado di Dirigente Generale. Dopo una carriera brillante, giunto al pensionamento, ha ripreso a coltivare i suoi vecchi amori: la campagna, la storia del suo quartiere natio, Chiaiano, nel quale è ritornato a vivere, "alimentandosi" dei valori della terra, dilettandosi a coltivare il suo orticello, luogo per lui ispiratore, dove trova gli argomenti, ma anche tanti ricordi che utilizza per comporre i suoi amati libri.

Baiano ha svolto negli ultimi tempi un'intensa attività letteraria e ancor di più culturale, essendo iscritto in ben tre associazioni culturali del territorio, con le quali sostiene progetti di recupero delle tradizioni e i valori della civiltà contadina di Chiaiano. Si trova anche impegnato in attività sociali, volte a favorire la rinascita sociale dell'Area Nord di Napoli. Inoltre, ha scritto centinaia di articoli sulle colonne di diversi giornali e su riviste locali, ma risulta essere anche un prolifico scrittore di libri, ha infatti pubblicato tre volumi di racconti intitolati: "I Figli della Selva", sette raccolte di poesie (Fiori del Cuore, Pensieri in versi e Sinfonie del Tramonto) e due saggi: "La ciliegia a Napoli" e "Pensieri e Sogni di un Cristiano".

Una sua significativa poesia, dal titolo "Tramonto sul mare", è stata inserita nell'edizione 2013 della prestigiosa: Agenda dei Poeti - edita dalla OTMA EDIZIONI, Milano.
La collana "I figli della Selva" è un autentico gioiello di ricordi e di racconti nostalgici, riguardanti il quartiere di Chiaiano; in ognuno dei tre libri sono ritratte le vite di alcuni personaggi di Chiaiano dei tempi andati, alcuni umili, altri insigni, appartenenti al mondo scientifico e culturale, ma da tutti traspaiono elevati valori di umanità ed anche una ricchezza poetica...
Altro libro degno di menzione è "Canti della Selva  e delle Cesinelle", opera che rivela tutto l'attaccamento viscerale dello scrittore alla propria terra, in primis per Chiaiano, sua terra natia, e poi per la stessa città di Napoli. Dalla lettura dell'opera si riescono a percepire e a palpare i dolci ricordi di un cuore ancora fanciullo, legati alla cara "madre terra", ma anche la rabbia e l'impotenza manifestate da chi si vede portare via e distruggere i propri tesori, senza poter far nulla per impedirlo... e così l'uomo maturo, il poeta, da "sfogo" alla penna, per esprimere le proprie amarezze e le proprie disillusioni...
Nel libro "fiori del cuore" sono raccolte poesie ricche di amore e di delicatezza poetica, dedicate a tutte le persone che l'hanno amato e voluto bene.

Salvatore Fioretto, scrittore e poeta (bio tratta dal libro Canti delle Cesinelle)

"Le Cesinelle”, com'erano nel 2006

Fino alla partenza per il servizio militare, eravamo trentadue residenti sulla masseria, a prescindere da chi veniva a lavorare e dai componenti della famiglia Sarnelli, che abitavano nella confinante masseria delle Cesine. Nel periodo estivo, vi trascorreva le vacanze anche la proprietaria della masseria, la Signora Ina D'Aniello con il marito, Arduino dottor Pianese e due figlioletti, Checco (Francesco) e Pasquale, ed un altro ancora nel materno e vistoso grembo. Spesso nelle ore pomeridiane, con uno dei due bimbi sulle spalle, per gli ombrosi sentieri, si arrivava fin dove c'erano ancora i resti di un'antica villa romana, in parte sotterrata. Ivi giunti, ci sdraiavamo sui freschi e teneri prati scampati alla calura estiva e mentre si respirava quell'aria ricca di ossigeno e di profumi delle selve di Casaputana, si rimaneva per qualche ora ad ascoltare il suggestivo silenzio e la deliziosa voce di quel solitario, rinfrescante  e tranquillo luogo.

Avevo allora appena undici, dodici anni. nel periodo della grande guerra, sulle Cesinelle arrivarono anche altre tre famiglie di sfollati napoletani, per un complessivo di ventisette persone.
E in quegli anni che si sono accumulati tanti ricordi che riposano sul letto della mia mente e ogni tanto si svegliano e mi pregano di non farli morire.
Sarà anche per questo motivo che ho deciso di fissarli una volta e per sempre su queste pagine, con la speranza di farli sopravvivere alla mia esistenza, quale memoria storica di un'epoca e di un contesto sociale ed ambientale, che continua ad evolversi in modo vertiginoso e preoccupante per le nuove generazioni.
Nonostante la guerra ed i bombardamenti e le tragiche vicende che seguirono, vissi lassù in un clima quasi sereno, forse perché per noi ragazzini la guerra era solamente un gioco per grandi, o comunque un affare che non ci coinvolgeva.
Alla fine dell'ottocento, mio nonno, nato e vissuto fino ad allora nel vicino Comune di Marano, e già proprietario di un piccolo pezzo di terreno in quella zona, prese in affitto circa nove moggi di terreno di questa masseria del Comune di Chiaiano ed Uniti.
Per abitazione, gli fu assegnato, a piano terra, un locale e tre stalle per gli animali domestici, due stanze al piano di sopra e una parte della soffitta, adibito a fienile, che noi chiamavamo "suppigno".
La stanza a piano terra era dotata di un rudimentale "fuculare" (focolare) ed era usata come locale in cui si ricevevano visite, si mangiava, si soggiornava e si depositava parte della frutta secca e cereali.
Era un locale abbastanza ampio che probabilmente era stato costruito per la servitù, considerato che presentava una grande e robusta porta in legno, un pavimento sterrato, un soffitto sostenuto da grosse travi e listelli di legno di castagno.
Può anche darsi che fosse una stanza del fattore dove la moglie preparava i pasti. Col passare degli anni, l'utilizzo del focolare aveva annerite tutte le pareti ed il soffitto.
Solo negli anni Sessanta, mio padre la rese più decente con lavori di una rozza soffittatura, una rustica pavimentazione ed una pittatina alle pareti.
Al centro, c'era un vecchissimo tavolo molto lungo per dodici persone, con uno scanno di legno da un lato, su cui sedevano solo i figli maschi (cinque). Sulle sedie, agli altri tre lati, sedevano tutti gli altri appartenenti alla numerosa famiglia. C'era, inoltre, una grande cassapanca di legno, ai piedi del lettino del nonno, in cui erano conservati i pezzi di pane e le "freselle", cotti nel forno a legna.
A fianco al letto, accostato alla parete di destra, c'era pure un vecchio armadio per gli abiti e la biancheria intima del nonno, anch'esso tutto incrostato di nero fumo.
Quando io e i miei due fratelli, Vincenzo e Biuccio, raggiungemmo l'età della pubertà, al posto del letto del nonno fu piazzato un letto più grande per noi tre, perché non ci fu più concesso di dormire nella stanza con le nostre sorelline più piccole. Il lettino del nonno fu allora spostato sul lato opposto, ai piedi del nostro, diviso dalla suddetta cassapanca.
Questi letti erano fatti con due cavalletti di legno su cui poggiavano delle tavole, anch'esse di legno. I materassi erano dei sacconi pieni di foglie secche di mais (sbreglie), o di penne di pollame. Le lenzuola erano di tela di canapa, o di lino, così pure le fodere dei cuscini.
Nelle stalle non mancavano mai le mucche di latte, vitelli e vitelline, né maiali e maialini. Ogni famiglia aveva un asinello o un cavallo, galline da uova, pulcini, galli, capponi, anitre, tacchini, piccioli, conigli e coniglietti di tutte le taglie. Né mancavano due o tre cani e due o tre gatti per famiglia.
Era questo il patrimonio degli animali domestici d'ogni famiglia di contadini di quell'epoca in tutte le masserie della zona e dei vicini paesi.
Al piano di sopra, la stanza da letto più bella e ariosa e decorosamente ammobiliata era usata dai nostri genitori. L'altra interna, con poca luce ed appena dotata di un vecchio comò ed armadio, era occupata da noi figli maschi con meno di dieci anni e figlie femmine.
La masseria era costituita da un vecchio e caratteristico casolare del settecento.
Sorge in cima ad uno dei colli più bassi della collina dei Camaldoli a nord ovest dell'abitato di Chiaiano.
L'antico casolare presenta due corpi aggiunti, per ospitare quattro famiglie di coloni. Se ne costruì prima uno sulla sinistra rispetto agli ingressi e, in epoca più recente, un altro sulla destra.
La campagna circostante è ancora ricca d'alberi da frutta, con presenza di ciliegi, peri, meli, susini e viti di diverse qualità di uva. Siamo nel 2000.
In primavera, tutti questi alberi si caricano di tantissimi fiori dai vivacissimi colori, dal bianco candido al rosa, con svariate sfumature.
Nelle giornate di vento, si assiste ad una spettacolare pioggia di petali variopinti che svolazzano per l'aria, come fiocchi di neve e ricoprono la terra con un manto bianco rosato, su cui spiccano le teste di rossi papaveri e di tanti altri fiorellini di prato. D'estate, poi, quegli alberi si caricano d'abbondanti e saporitissimi frutti di vari colori e dalle varie forme, che si offrono con orgoglio e sempre volentieri a chiunque volesse assaggiarli, anche senza chiedere permesso.
La masseria delle Cesinelle, come tutte le altre della zona, aveva un cortile, un'aia, un forno a legna, un pozzo per la raccolta delle acque piovane, una cantina, che era chiamata "cellaro", ed un sottotetto (suppigno), che veniva usato come fienile.
Tutti questi locali erano d'uso comune oppure opportunamente ripartiti tra i quattro coloni.
Per la sua posizione in cima ad una collina e la composizione e ripartizione dei vari locali e servizi è certamente una delle più caratteristiche masserie della zona, dopo quella della contessa Fontanarosa costruita sul colle Ferrillo, in mezzo alle selve di castagno.
Alle spalle del fabbricato delle Cesinelle c'era un giardino con alberi d'aranci, mandarini e limoni, un fico, una bellissima e altissima pianta di palma, due vecchi alberi d'ulivo che non facevano mai frutto, un gruppo d'alloro, dei nespoli nataligni, detti anche nespoli pelosi.
Questo nostro giardino si distingueva dal resto della campagna per questi alberi particolari e per le rose e i gigli ed altri fiori.
Era l'orgoglio della mia famiglia, cui era stato assegnato, all'atto della divisione della masseria tra i quattro coloni.
Di tutto ciò è rimasto ben poco! Anche della centenaria palma è rimasto solo il tronco, uccisa come tante altre della zona da un verme killer.
Già da molti anni, le tre famiglie hanno abbandonato quelle abitazioni troppo anguste, troppo lontane dal paese e troppo isolate e prive di servizi di qualsiasi genere.
Cominciarono ad andar via, perché non c'era la luce elettrica, telefono e nemmeno acqua potabile, ma solo quella piovana raccolta nel pozzo, piena di vermiciattoli.
Fu solo durante la grande guerra che fu costruito un deposito nel ventre del tufo della nostra selva, quale riserva d'acqua del Serino per la zona ospedaliera.
Tutti i santi giorni, specialmente nel periodo estivo, bisognava scendere laggiù per attingere almeno quella quantità che si usava per bere e cucinare.
Non era così semplice e facile recarsi fin dove passava quella condotta d'acqua. Bisognava attraversare un sentiero nella campagna del nostro vicino, compare Nicola. Si scendeva per una rapida costa di quella nostra selva, attraverso uno stretto viottolo, o saltellando in mezzo agli alberi di olmi, querce ed altri di cui ho sempre ignorato i nomi. Giunti nel suo fondo, si andava avanti, ancora per un breve tratto tra castagni e ginestre, fin sopra il sottostante canalone di Cupa Vrito, dove passava la condotta.
In un certo punto  c'era un tombino coperto da una pesante piastra di ghisa, che bisognava sollevare con un paletto di ferro.
Ci si calava dentro, e, con una chiave inglese, si faceva girare una grossa vite per fare uscire l'acqua da un tubo. Riempiti i due secchi, si richiudeva quella vite, si saliva sopra e si rimetteva al suo posto il coperchio sul tombino. Si tornava indietro per lo stesso ripido viottolo che attraversava il costone, fermandoci ogni tanto per dare un po' di tregua alle mani indolenzite ed al fiato. Ancora altri cento metri circa, tutti in salita e si arrivava sopra la terra del nostro vicino. Lì, dopo un gran respiro di sollievo, ci si buttava per terra per un più lungo riposo, per poi ripartire sempre con quei secchi in mano. Si giungeva a casa senza più forze e con entrambe le mani e braccia indolenzite, maledicendo il nostro destino.
C'era un'altra possibilità di prelevare l'acqua , si scendeva per la strada che conduceva al paese fino alla grotta delle Cesinelle ed anche lì, nella terra del nostro vicino, soprannominato 'o Quartese, c'era un altro tombino con coperchio di ghisa, in cui si doveva scendere per attingerla con le solite operazioni di svitamento e riavvitamento.
Personalmente preferivo andare nella mia selva, dove mi sentivo a mio agio e soprattutto più protetto, per la presenza anche di una fitta vegetazione.

Quella sita nei pressi della grotta era allo scoperto ed io avevo sempre paura di essere sorpreso dagli addetti all'acquedotto, pur sapendo che il prelievo non era vietato a noi coloni della masseria.
Credo che, tra i tanti altri motivi, anche questo sia stato determinante per le mie future decisioni. Ma di queste è ancora troppo presto per parlarne.

Tanto perché si abbia un'idea di come si viveva nelle masserie in quell'epoca, anni Quaranta-Cinquanta, vi dirò che per studiare fino a tarda notte, facevo uso di un lume a petrolio, che mi riempiva le narici di un fumo nero puzzolente e mi faceva bruciare gli occhi. Con la luce del giorno dovevo aiutare mio padre e miei fratelli nei lavori dei campi e della selva.
Nel buio si usavano candele, lumini ad olio e lumi a petrolio. Quando invece, tirava vento e bisognava uscire allo scoperto, si usavano lumi dotati di una campana di vetro, per proteggere la piccola fiammella dal vento e dalla pioggia. La luce ed il telefono fu possibile ottenerli e utilizzarli solo dopo gli anni Sessanta.
Abbandonata a se stessa, quella masseria sta morendo a poco a poco ed io sto assistendo alla sua agonia senza poter far nulla, se non dedicargli dei nostalgici versi".

Gen. Giovanni Baiano

 

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