“Alla ricerca del vecchio mulino”, racconto affascinante per bambini del poeta-scrittore Franco Ciccarelli: una storia degli anni ’70 ambientata a Calvizzano

 Personaggi eventi e luoghi reali romanzati. Un racconto dove emergono sentimenti come l’amore e l’amicizia. Franco Ciccarelli: "un omaggio al mio caro paese Calvizzano”

 



         


                   

             

                                          Alla ricerca

                                      del Vecchio Mulino

Questa è una storia ambientata, agli inizi degli anni ’70, in un grazioso paese della

provincia di Napoli di nome Calvizzano. È il paese natale dei due protagonisti ed è con molto piacere che ci presentiamo a voi, piccoli lettori.

Il mio nome è Simone, mentre il mio carissimo amico si chiama Luca. Una mattina di

primavera Luca ed io giocavamo coi soldatini, sotto un grande albero di profumatissimi mandarini, nel cortile della casa di zia Ida e di zio Giuseppe.

In realtà, erano i genitori di Luca, che io consideravo alla pari degli zii, perché mi sentivo parte integrante di quella famiglia, dal momento che zia Ida era la cugina di mia madre.

I nostri eroi erano i famosissimi “Lupi dell’Ontario”, capeggiati dall’impareggiabile

Comandante Mark e dai suoi amici Mister Bluff e Gufo Triste. Erano bellissimi e colorati, sembravano quasi veri; li posizionavamo sulla parte alta del fortino costruito su una piccola isola, quasi al centro del “Lago Ontario”.

No, non stavamo nel Nord America a giocare: semplicemente avevamo preso una grossa bacinella piena d’acqua, con un grande sasso che fungeva da isolotto.

Dopo aver immerso il sasso nell’acqua, posizionammo il fortino su di esso e creammo un ponte di legno che, manovrato con due sottili fili di ferro, appoggiava sul cordolo di pietra che ornava l’albero di mandarini.

Ecco fatto: tutto era pronto, attendevamo solo l’imminente arrivo delle “Giubbe Rosse” che, con i loro fucili e la loro artiglieria al completo, minacciosamente si avvicinavano, attraversando la foresta.

La foresta in questione era costituita dalle piante e dai fiori che zia Ida teneva in grandi vasi e che curava ogni giorno, quasi fossero sue creature.

Noi stavamo attenti a non recidere alcun gambo di quei bellissimi e profumatissimi fiori, ma era quasi impossibile che ciò accadesse. Infatti, quando un fiore si spezzava, entravamo completamente nella parte del nemico inglese e imprecavamo al grido di “Goddam”.

Per la verità, non temevamo che il Comandante Mark o che i suoi “lupi” ci potessero scoprire. Avevamo piuttosto paura della reazione della zia, che non solo ci avrebbe cacciati via dal cortile con qualche sculacciata, ma non ci avrebbe portato nemmeno quelle fette di pane con olio e zucchero che tanto ci piaceva mangiare.

Zia Ida le preparava, ogni giorno, nella cucina al pianterreno, dove c’era una scala a chiocciola, di ferro battuto, che permetteva l’accesso alle stanze del piano superiore.

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Su una mensola era appoggiata una piccola radio, con l’antenna posizionata per le

frequenze, che Luca teneva sempre accesa. In alto, un poster della Lazio/calcio, con

Giorgio Chinaglia con la fascia da capitano, di cui Luca era un grande tifoso, e un altro di Felice Gimondi, con la “maglia rosa” al Giro d’Italia del 1976.

Intanto, dopo esserci assicurati che la buona e dolce zia Ida non fosse in cucina, per evitare un eventuale disastro alle sue adorate piante, ci preparammo per l’imminente evento che avevamo preparato da alcuni giorni: la grande battaglia per la liberazione dell’amata America dagli invasori inglesi di Re Giorgio III.


Sullo sfondo, dietro l’albero, c’era la macchina color verde-oliva di zio Giuseppe,

lucidissima e sempre pulita all’interno. Ogni mattina, di buon’ora, la prendeva per

andare al lavoro.

Ancora più indietro, alla fine di due ampi scalini, si inerpicava una piccola grotta

circondata da piante di vario tipo; in essa una candida Madonnina con una fascia azzurra ai fianchi dominava la scena.

Era la Vergine di Lourdes, che sembrava osservarci e sorridere ogni volta che la

guardavamo.

Zio Giuseppe le era molto devoto e le riservava una speciale venerazione.

Ci sentivamo, in qualche modo, protetti da quella presenza divina, diventata ormai a

noi molto familiare.

Come detto, i fiori, accuratamente posti in grandi vasi di creta da zia Ida, erano freschi e profumati ogni giorno e, grazie a questa costante cura floreale, avevamo l’illusione che la Madonnina apprezzasse e ci ringraziasse ogni volta.

Ritornando ai nostri “Lupi dell’Ontario”, la grande battaglia era ormai imminente. Le

Giubbe Rosse erano nei pressi della zona rossa e di lì a poco iniziarono a far partire

assordanti bordate, con i loro potentissimi cannoni.

 

 

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I “Patrioti Americani” non si fecero cogliere di sorpresa e dagli spalti del forte risposero con altrettante cannonate e raffiche di colpi di baionette.

Dopo una prima ricognizione delle nostre vedette, che, con potenti binocoli sulle torri più alte del fortino, osservavano i movimenti del nemico, si decise di intervenire a cavallo, affrontando gli avversari a viso aperto.

In un attimo si abbassò il ponte levatoio e, dal forte, una moltitudine di cavalieri armati fino ai denti fece irruzione sulla terraferma, attraversando eroicamente le trincee inglesi. Ci fu un aspro combattimento, con molti feriti, qualcuno anche grave, ma, alla fine, l’intervento risolutivo di “El Gancho”, il nostro Corsaro dei Caraibi, eliminò ogni ostacolo. Infatti, con la sua nave ancorata nel lago già da qualche giorno, bombardò e spazzò via i soldati che ancora resistevano all’attacco terrestre.

La battaglia alla fine si risolse con la ritirata degli Inglesi tra gli alberi della foresta, con due vasi rotti, tre piante recise e un’orchidea schiacciata.

Verso sera, mentre il Dott. Strong assisteva e curava i feriti, la deliziosa e carinissima

Betty preparava i suoi squisiti manicaretti per festeggiare l’agognata vittoria.

Gli eroici “Lupi dell’Ontario” si riunirono attorno ad una grande tavola che faceva bella mostra di sé nel piazzale antistante il forte, mangiando, bevendo e cantando a squarciagola. Anche Flok il cane di Mister Bluff ebbe la sua bella ed abbondante porzione di cibo, facendo ingelosire non poco Gufo Triste che aveva una forte avversione per lo spelacchiato amico del barbuto Mister Bluff.



            

 

Nitidi ricordi di valorosi eroi

coraggiosi ribelli di dure sommosse

lottavano per

l’indipendenza dell’America

contro gli odiati inglesi

dalle giubbe rosse.

 



 






Dopo questa eroica battaglia, la prima cosa da fare era quella di sostituire i vasi rotti e le piante spezzate. L’unica soluzione era la veranda del caro zio Pasquale, fratello di zio Giuseppe, che abitava al piano superiore. Essa si trovava in cima alle scale della grande casa che affacciava sul cortile dove quotidianamente giocavamo.

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Salimmo con cautela, cercando di non fare troppo rumore. Quando arrivammo alla

veranda, sciogliemmo il nodo della corda che teneva chiuse le due ante.

Ed ecco che ai nostri occhi si presentò un mondo fantastico. Trovammo di tutto:

Quadri di santi, statue di bronzo, candele colorate, libri ingialliti, acquasantiere di

porcellana, mobili intarsiati, spade arrugginite, antiche pistole, archi e frecce indiane, cerchioni di biciclette, bastoni per le tende, ferri da stiro, grammofoni, vecchie valigie e tanto altro ancora. Il tutto coperto da fitte ragnatele e polvere spessa due dita. Solo un vecchio violino con su scritto “Stradivari n.12” e una meravigliosa macchina per cucire dell’Ottocento (era visibile una targhetta che ne indicava l’anno di costruzione) erano ben conservati in un enorme baule, che aprimmo per dare un’occhiata all’interno.

In una vetrina chiusa, ben allineate e protette dalla polvere, in gran quantità

pacchi di sigarette, che zio Pasquale rivendeva nella sua tabaccheria davanti al cortile.

 

Ovviamente c’erano anche i vasi di creta che a noi occorrevano. Li prendemmo con

molta cura e con massima attenzione, per evitare che si rompessero.

Fu, tuttavia, un particolare a suscitare la mia curiosità: appeso ad un grosso chiodo, in alto, sulla parete, c’era un bellissimo quadro che raffigurava un porticato di mattoncini color porpora, situato su una stradina in discesa. Al suo interno, un mulino utilizzato per la macina del grano, trascinata da un asinello.

Sullo sfondo erano disegnati alberi con foglie color verde-smeraldo e, in basso a

destra, c’era la firma dell’autore, un certo “Paul Ramone”.

Sulla cornice c’era attaccato un piccolo adesivo con su scritto: “Olio su tela”.

Dissi, quasi balbettando: << Luca vieni qui, osserva questo quadro, ti ricorda qualcosa ? >> E lui, dopo averlo guardato, rispose, categorico:  << Non ne ho la più pallida idea >> !!!

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Il quadro col mulino mi affascinava moltissimo e sarei rimasto a guardarlo per ore, ma dovevamo andare via dalla veranda, per non correre il rischio di essere scoperti da zio Pasquale.

Mentre stavamo uscendo, vidi, di sbieco, un piccolo libro appoggiato su una stufa a gas, che aveva sulla copertina marrone lo stesso soggetto disegnato nel quadro appeso alla parete.

Tolsi con le mani lo spesso strato di polvere e lessi il titolo che recitava: “Le Origini del Vecchio Mulino di Calvizzano”.

Lo sfogliai velocemente, per cercare di capire in che modo si macinava il grano all’epoca dei nostri bisnonni, ma, con mio disappunto, le pagine erano tutte bianche. Solo sul retro della copertina erano riportati sedici caratteri, color oro, scritti in caratteri molto piccoli. Sembrava quasi un codice cifrato: “JL09PM18GH25RS07”.

Perplesso, dissi a Luca:

<< Non ho mai visto nulla del genere…Non sarà mica un intrigante mistero, quello del vecchio mulino ? >>

Luca rispose: << Potremmo chiedere a mio padre >>… Presto, tuttavia, si corresse:

<< Forse è meglio non dire nulla: Papà potrebbe capire che siamo stati nella veranda e riferire tutto a zio Pasquale >>.

Convinto subito, replicai: << Hai ragione. Meglio tenere la bocca chiusa e conservare per noi il segreto >> .

Comunque, non potevamo perdere altro tempo prezioso, poiché zia Ida avrebbe potuto accorgersi della nostra scomparsa; inoltre, dovevamo ad ogni costo e nel più breve tempo possibile risistemare la sua lussureggiante aiuola.

Scendendo dalla veranda, notammo delle piante che la moglie di zio Pasquale, la

simpatica zia Filomena, teneva appoggiate sopra delle mensole ad ogni rampa di

scale. Era quello che esattamente ci occorreva.

Le piante, dal grosso stelo, anch’esse molto curate, ornavano statuine devozionali di gesso, di vari Santi, il cui nome era inciso su una targhetta argentata ben fissata alla base e sulla quale compariva anche una breve descrizione.

La disposizione, per ogni piano, partendo dall’alto, era il seguente:

4° piano Santa Lucia (Protettrice delle malattie oculari)

3° piano San Francesco Saverio (Gesuita e missionario spagnolo)

2° piano Sant’Antonio da Padova (Sacerdote della chiesa portoghese)

1° piano San Giacomo Maggiore (Apostolo e Santo Patrono di Calvizzano)

Ne prendemmo una per ogni piano, non senza aver chiesto umilmente perdono ai Santi interessati, e le sistemammo con cura nei vasi prelevati dalla veranda, che riempimmo con il terreno ricavato nel recinto perimetrale della pianta di mandarini.

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L’impresa, a quel punto, era quasi riuscita; mancava solo l’orchidea.

Fortuna volle che, nella casa adiacente, la figlia della signora Greta, la dolce Esterina, si dovesse sposare proprio quel giorno e su un tavolo, sopra la loro terrazza, era

appoggiato, in bella mostra, in attesa che arrivasse il fotografo, il bouquet appena confezionato dal fioraio.


Fu un gioco da ragazzi scavalcare il muretto che separava i due terrazzi; con la velocità di un fulmine, Luca, che per queste cose era molto più scaltro di me, si avvicinò al tavolo e “colse” i fiori che ci occorrevano. Prelevò due bellissime orchidee dal bouquet della sposa che posizionammo con cura nel vaso. La missione finalmente poteva considerarsi conclusa! Scongiurammo così una nostra sicura sconfitta, molto più dura di quella subita dalle Giubbe Rosse poco prima.

In un momento di assoluta calma, superata l’agitazione della battaglia contro gli inglesi e l’ansia per aver “prelevato”, di nascosto, vasi, piante e fiori, Luca ed io ci concedemmo un riposino all’ombra dell’albero, per gustare qualcuno di quei dolcissimi mandarini che avevano la caratteristica di non avere semini al loro interno. Ricordo che zia Ida  chiamava quegli agrumi “clementine”.

A noi il nome non interessava più di tanto, presi com’eravamo a mangiarne in grande quantità.

Le bucce rilasciavano nell’aria un dolce effluvio… Il cielo era più azzurro del solito e un raggio di sole trapassò i rami zeppi di foglie, facendoci chiudere ancora di più gli occhi già abbondantemente assonnati.

E in quel dolce momento mi parve di vedere il tenero sorriso di mia mamma Caterina, che era solita usare le bucce di mandarino per riempire le cartelle della tombola la sera della Vigilia di Natale. Lei sosteneva che i fagioli non erano adatti per coprire i numeri, perché scivolavano sul tavolo e bisognava richiamare tutti gli estratti, per continuare a giocare regolarmente.

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credo che avesse davvero ragione!

 


Mia madre era molto religiosa e recitava il Santo Rosario ogni giorno. Rammento che aveva sempre un sorriso e una parola buona per tutti.

Un giorno mi raccontò un piccolo episodio avvenuto quando lavorava come infermiera in una clinica per persone con qualche disagio psichico. Un paziente, durante le prime ore della notte, chiese di avere una doppia razione di pillole calmanti, perché si sentiva più agitato del solito. Lei rifiutò di dargliele, perché quel farmaco assunto in quantità eccedente la dose media avrebbe potuto causare seri problemi di salute. L’uomo, che doveva essere davvero un po’ matto, insistette e cominciò a gridare per tutta la stanza come un dannato.

Mamma Caterina, a quel punto, gli disse:

<< Va bene ti darò un’altra pillola, ma tu non devi dire nulla al Professore altrimenti

saranno guai per tutti e due >>.

Il paziente, soddisfatto e perplesso, le sorrise e le promise di non riferire nulla.

Così Caterina andò in dispensa, prese una piccola caramella zuccherata e l’avvolse in un’ostia. La camuffò così bene da farla apparire perfettamente somigliante alle vere pillole calmanti.

Portò la nuova pasticca al paziente e gliela fece ingoiare con mezzo bicchiere d’acqua, bevuto tutto d’un sorso, come si usa fare in questi casi.

 


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Subito dopo il signore un po’ strambo replicò:

<< Ho avvertito un sapore diverso dalle altre pillole. Questa era molto più buona e gustosa del solito >>.

Mamma rispose: << È una nuova medicina. Vedrai che ti farà bene >>.

Il paziente dormì per tutta la notte, senza dare un’ombra di fastidio e al mattino ringraziò la “Signora Caterina”, così la chiamava, per aver esaudito la sua richiesta.

È proprio il caso di dire: “Roba da matti !”.

Mi venne in mente anche zia Evelina : un tipo allegro che sorrideva sempre,  aveva un cuore d’oro e tanta pazienza con i nipoti.

Zia Evelina cucinava molto bene; le sue specialità erano la pasta e fagioli e i carciofini sott’olio. Ricordo che ogni mattina si recava in cucina, appoggiava la mano sul tavolo, per reggersi, e recitava, in piedi, le preghiere davanti ad un’immagine di Padre Pio che faceva bella mostra di sé sul muro di fianco alla finestra.

Dopo aver terminato di rivolgere le lodi al Santo, prendeva gli avanzi di cibo del giorno precedente e li gettava ai gatti che, sotto al balcone, aspettavano impazienti.

Voglio ad entrambe molto bene. A quest’ora saranno concentrate a preparare il pranzo domenicale per la famiglia.

Mamma mi raccontava anche di zio Antonio, partito giovanissimo per la campagna di Russia, durante l’ultima guerra mondiale e che tornò a casa dopo molti anni con grande sorpresa e incredulità di tutti i parenti.

Quelle storie Luca le conosceva già e immaginava cosa stessi pensando in quel

momento sdraiato all’ombra dell’albero. Con molta delicatezza, quasi temendo di

disturbare, disse: << Simone, mi è balenata per la testa una bizzarra idea, che credo ti piacerà molto >>. Risposi incuriosito: << Dimmi Luca di che si tratta? >>.

E lui: << Sto pensando che sarebbe fantastico esplorare la grotta che ospita la

Madonnina. Che ne pensi? >>.

La proposta sinceramente mi piaceva tantissimo, ma avevo qualche timore, perché non sapevo a cosa saremmo andati incontro. Per la verità anche Luca era un po’ impaurito, nonostante fosse stato lui ad aver avuto l’idea di esplorare la grotta.

Anche se non sapevamo assolutamente cosa ci attendeva durante il cammino, i dubbi si dissiparono in un attimo, quando l’adrenalina iniziò a solleticarci per tutto il corpo. A quel punto suggerii:

<< Sì, sono d’accordo, a patto che facciamo ritorno a casa prima che cali la sera >>.

Fu così che ci demmo appuntamento il giorno successivo, per poter esplorare la grotta che ospitava la Madonnina di Lourdes.

Il mattino seguente ci alzammo prestissimo, dicendo in casa di dover effettuare le prove della recita a scuola. Era ovviamente una scusa: la scuola e le sue attività didattiche erano l’ultimo dei nostri pensieri e nei nostri zainetti, al posto dei libri e dei quaderni, c’erano panini, bottigline d’acqua e succhi di frutta, che avevamo preparato con cura e in completa segretezza la sera precedente.

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Anche se avevamo marinato la scuola, ho sempre pensato che la nostra cara maestra Caterina Agliata sarebbe stata orgogliosa di noi, perché avevamo intrapreso questa avventura e certamente non ci avrebbe rimproverato.


Arrivati alla grotta, scavalcammo le prime rocce situate nel lato più basso e, dopo una breve arrampicata, ci trovammo proprio di fronte alla Madonnina di Lourdes.

Era grandissima, più alta di me e Luca messi uno sull’altro. Fu una grande emozione

vederla così da vicino.

Meravigliati all’inverosimile, ci fermammo a guardare il colore azzurro dei suoi occhi, che luccicavano molto di più di quanto si vedesse dal basso.

L’estrema vicinanza con la Madonnina ci faceva battere forte il cuore; accarezzammo i suoi piedi dolcemente ed iniziammo ad entrare nella grotta.

Appena entrati, notammo subito un piccolo e limpidissimo corso d’acqua e una barchetta con due remi, ferma sulla riva.


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Salimmo sulla barca e raggiungemmo in poco tempo l’altra sponda. Scendemmo ed

iniziammo a camminare lungo stretti sentieri che costeggiavano le pareti rocciose.

Ad un tratto notammo, su una di queste pareti, un grande cerchio diviso in quattro

spicchi, con sopra ciascuno, era appena visibile un’immagine disegnata.

Dal basso, infatti, si faceva fatica a vedere cosa davvero era dipinto, a causa di una patina di salsedine giallastra spalmata su tutta la circonferenza.

A quel punto, salii sulle spalle di Luca e iniziai a pulire il cerchio inciso sulla parete con uno straccio umido e maleodorante, appoggiato su una vecchia lampada a petrolio, trovata li per caso.

 

Poco dopo Luca, stremato dalla fatica, ripeteva in continuazione:

<< Ti supplico, Simone, fai presto a pulire, la mia schiena non regge, stramazzeremo al suolo e nessuno ci potrà aiutare, perciò moriremo di fatica >>.

Risposi:

<< Tieni duro Luca ancora un po’: ho quasi finito. Cerca di resistere >>.

Finalmente, dopo dieci minuti circa, con grande gioia di Luca, terminai il mio lavoro e riuscimmo a vedere nitidamente i soggetti raffigurati, che erano così suddivisi:

1° spicchio: Un venditore di gelati.

2° spicchio: Un prete che leggeva il breviario.

3° spicchio: Un sarto seduto su una sedia di paglia, intento a cucire.

4° spicchio: Un antico mulino, per macinare il grano, all’interno di un porticato

Sgranando gli occhi, gridai:

<< Luca guarda, c’è anche il mulino: è identico a quello del quadro appeso nella

veranda e alla copertina del libro sulla stufa. Ricordi? >>

<< Cosa può significare tutto questo? >>

Luca rispose come al solito:

<< Non ne ho la più pallida idea ! >>

 

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Ed io:

<< Ma sai dire solo questo, Luca? >>

<< Allora ti spiego io cosa vuol dire tutto ciò: entrando nella grotta, siamo ritornati indietro nel tempo di qualche anno e i soggetti raffigurati nel cerchio sono persone scomparse a noi care,  che abbiamo amato in vita e che continueremo a ricordare con affetto.  Il vecchio mulino si trovava a Calvizzano, tantissimi anni fa, e siccome non possiamo chiedere agli zii della sua esistenza, perché corriamo il rischio di svelare il nostro segreto, dobbiamo documentarci da soli sulla sua storia e la sua origine. Per fare questo, dobbiamo recarci di persona. Capisci, Luca? Questo è il messaggio che abbiamo ricevuto dal dipinto e dal libro che abbiamo visto nella veranda di zio Pasquale >>. Poi, scuotendolo con eccessiva euforia, continuai:

<< Caro Luca, il destino ha voluto che vivessimo questa meravigliosa avventura. Sono

sicuro che incontreremo queste persone e che conosceremo la vera storia del mulino.

Ti ringrazierò per tutta la vita per aver avuto l’idea di esplorare questa grotta >>.

Infatti, fissando il primo spicchio, avemmo la netta sensazione che quel venditore di gelati fosse un nostro conoscente. Ricordammo quel carretto pieno di gelati e granite, che girava per le strade del paese, quando arrivava l’estate.

Ci sembrò di sentire la sua voce e con gioia ricordammo il suo nome:

 George il gelataio

George il gelataio passava ogni giorno d'estate,

nelle ore più calde,
per la vecchia strada di Calvizzano.

Io ricordo che con le mie biglie colorate in mano
gli andavo incontro
e con un timido sorriso

chiedevo un piccolo gelato al limone.

Lui mi guardava divertito
e dopo avermi accarezzato il capo
mi regalava un cono con tanto limone

Da allora sono passati molti anni
e purtroppo il nostro amico George è morto
e tutti noi siamo tristi

Noi lo ricordiamo sempre 
ma la vecchia strada sul corso del paese

non è più la stessa
da quando George ci ha lasciati.

 


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Nel secondo spicchio, un prete era intento a sfogliare il suo breviario e a recitare le sue abituali preghiere.

Conoscevamo anche lui: era il nostro caro parroco che d’estate ci accompagnava al mare col suo piccolo pulmino.

 Padre Amedeo

Un anziano prete, cammina adagio

tra sentieri di collina,

ornati da antichi alberi di ciliegie.

Padre Amedeo, questo è il suo nome,

trascorre in quei luoghi interi pomeriggi

e seduto su una panca all’ombra degli alberi

legge il suo piccolo breviario.

Prima che il buio della sera sopraggiunga,

ridiscende a valle

raccogliendo  fiori di campo per il suo altare.

Arrivato a casa,

li sistema in un piccolo vaso di creta

appoggiato sul davanzale della finestra,

poi consuma una frugale cena

prima di andare a dormire.

Come ogni mattina, alle prime luci dell’alba,

seduto sul letto, recita il Santo Rosario.

Intorno a se fumi di incenso, immagini sacre,

acquasantiere di porcellana, stole ricamate,

libri ingialliti, statue di Santi e lunghi ceri decorati

sembrano fargli compagnia.

A metà mattino, il sagrestano

ritira i fiori freschi da portare in chiesa

mentre Padre Amedeo

in sella alla sua bicicletta un po’ arrugginita

raggiunge lentamente

la piccola cappella del paese

dove i fedeli lo attendono impazienti

per la confessione e la Santa Messa.

 

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Gli abitanti di quel piccolo villaggio                                 

sono sempre presenti

a quell’appuntamento quotidiano

e amano molto il loro parroco

il quale ricambia amorevolmente

dedicandosi alle loro esigenze spirituali.

Questo è Padre Amedeo, un uomo semplice,

con le sue malinconie, speranze e gioie

custodite tra sentieri di collina

ornati da antichi alberi di ciliegie.

 


Quando ci soffermammo a guardare il terzo spicchio del cerchio, un’emozione mi strinse fortemente il cuore: rividi quel sarto intento a cucire gli abiti che indossavo pochi anni prima.

Sfera di Cristallo

Guardo attraverso una sfera di cristallo

disegni colorati su un piccolo quaderno

una stanza col braciere acceso

fredde sere d’inverno

 

Vedo il profilo del viso

io seduto al tuo fianco

le tue mani sulle mie

un meraviglioso cavallo bianco

 

Teneri e malinconici sorrisi

sogni infranti di una vita

sull’uscio l’attesa della mamma

carte sul tavolo per una nuova partita

 

Guardo attraverso una sfera di cristallo

ed ecco che ti rivedo ancora

mentre cuci un elegante vestito

e dalla finestra arriva l’aurora

 

 

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Riponi il ditale e gli occhiali

una sigaretta per un breve riposo

un sorso di caffè bollente

la pagella in tasca per sentirti orgoglioso

 

Sul tavolo la radio è accesa

Hit Parade all’ora di pranzo

ci aspetti che usciamo da scuola

in Tv gli episodi di un nuovo romanzo

 

Guardo attraverso una sfera di cristallo

tra le pareti ovali sbiadisce il colore

sono bagnate da gocce di lacrime

che toccano l’anima accarezzando il dolore

 



Restava il quarto spicchio, per terminare il nostro viaggio. Dovevamo arrivare al vecchio Mulino e, solo a pensarci, sia a me che a Luca tremavano le gambe per l’emozione.

Continuammo a camminare lungo la grotta. Il livello dell’acqua del fiume si alzava sempre di più e iniziava a fare un po’ freddo.

Fortunatamente avevamo portato con noi anche dei maglioncini di lana che avevamo avvolti attorno ai fianchi e che indossammo subito, per ripararci dalla forte umidità. Dopo un po’, vedemmo una luce in lontananza diventare sempre più grande: capimmo che finalmente stavamo per uscire dalla grotta.

Una volta all’esterno, ci trovammo davanti a una breve discesa.

Percorrendo questo tratto di strada, ci soffermammo a leggere, sui parapetti ai lati della via, bellissime frasi d’amore dedicate a Gesù, scritte con un gessetto bianco e in bella calligrafia.

Una signora affacciata a un balcone ci vide e disse: << Quelle frasi le scrive un uomo anziano, una bravissima e dolce persona. Il suo nome è Vincenzo >>.

Subito dopo un’altra signora, affacciata a una finestra di fronte, urlò con molta più enfasi: << Vicienzo ‘o Santo !!! >>

Dopo aver letto tutte le frasi, che sembravano vere e proprie preghiere, arrivammo a un bivio.  Dovevamo, pertanto, scegliere in quale direzione andare.

Alla nostra sinistra si notava un’insegna illeggibile: il tempo aveva cancellato quasi tutte le lettere, mentre sull’insegna di destra, anche se non proprio in modo nitido, si riusciva a leggere “Via Roma”.

Disse Luca: << Se in una strada c’è un mulino, come logica vorrebbe, si dovrebbe chiamare Via Mulino e non Via Roma >>. << Giusto >>, risposi.

Decidemmo così di proseguire verso sinistra. All’improvviso, una inaspettata folata di vento ci fece quasi cadere per terra. Ci riparammo, velocemente, dietro una casa che aveva le finestre non troppo alte, protette esternamente da grate di ferro. A pochi metri da questa casa, c’erano delle grandi scale in cemento, sulle quali Luca ed io ci sedemmo rannicchiati, aspettando che il vento si calmasse.

Alzando gli occhi al cielo, notammo che sul muro erano disegnate con la vernice nera due frecce indicanti direzioni opposte. Sulla prima freccia, rivolta verso l’alto, c’era scritto “Via Baracca”, sulla seconda, rivolta verso il basso “Via Molino”. Tirammo un bel sospiro di sollievo: almeno eravamo certi di aver imboccato la direzione giusta. Il vecchio mulino non doveva essere troppo lontano. La sensazione era che fossimo quasi giunti a destinazione.

Stavamo ancora seduti sulle scale, quando sentimmo, all’improvviso, un vociare acuto e continuo. Non capimmo cosa si dicesse, ma, dall’angolo della casa, scorgemmo una donna completamente vestita di nero, che trainava con una corda un grande pentolone appoggiato su un asse di legno, con quattro rotelle d’acciaio, una per ogni angolo.

Da quel pentolone usciva un denso vapore, che lentamente si dissolveva nell’aria.

Incuriositi, ci avvicinammo a guardare cosa contenesse quella grande pentola, molto simile a quella che mia mamma Caterina e zia Evelina usavano per le conserve di pomodoro, nel mese di settembre.

La signora in nero, appena ci vide arrivare, sollevò il coperchio di alluminio e ci mostrò le sue bellissime spighe di granoturco, color oro, che galleggiavano nell’acqua giallastra e continuò a gridare:  << Vòllon, vòllon >>.

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Per la strada due donne vestite di nero, girano col carretto

e la bilancia alla spalla
offrono more gustose

e spighe dorate
che nel pentolone fumoso vengono a galla.

 

Solo allora “traducemmo” quel vociare acuto che faceva eco nell’aria, sentito poco prima. Siccome avevamo un po’ di fame ed avevamo finito i nostri panini attraversando la grotta, con i pochi soldi che avevamo in tasca comprammo due grandi spighe di mais, che mangiammo con tale voracità da sembrare due conigli affamati.

 


 Continuando a camminare per via Molino, incontrammo una decina di bambini festanti che, scendendo dalla cima della salita (quella che precedentemente anch’io e Luca avevamo percorso), portavano tra le braccia rami spezzati di alberi di pesche, tenuti insieme da un filo di ferro.  Incuriosito domandai a uno di loro:

<< A cosa servono tutti questi rami? Li conservate per accendere il camino quando

arriva il freddo ? >> Il bambino rispose:

<< No, li conserviamo nella legnaia per il falò che faremo nel grande giardino in onore di Sant’Antonio Abate >>.

E Luca: << Che bello, un falò! Già immagino tutte le persone sedute attorno a riscaldarsi >>.

Replicò il bambino: << Ci sarà anche la benedizione degli animali…Se a te e al tuo amico farà piacere venire, fatecelo sapere. Ci saranno anche tante cose buone da mangiare >>.

<< Sarà certamente una bellissima festa! Grazie per l’invito >>, risposi.



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L’ansia cresceva sempre più, ma del vecchio mulino nemmeno l’ombra.

In quella strada c’era comunque tanta vivacità : era un continuo via vai di persone e svariati ambulanti impegnati nella loro attività commerciale. Sprigionavano profumi intensi e calore umano da tutte le parti. Sembrava un vero e proprio suk, un mercato arabo all’aperto, con vocio e versi di ogni tipo. Nel palazzo con le grate di ferro alle finestre, c’era un negozio ridondante di stoffe e biancheria, che era visibile anche dalla strada. La proprietaria, una dolce signora con piccoli occhiali di nome Margherita, dietro il suo lunghissimo bancone, risistemava con cura la merce, dopo averla mostrata a ciascun cliente che entrava. C’era un continuo andirivieni di gente come per esempio il venditore di formaggio e ricotta fresca, che passava col suo cesto pieno di panini. Si fermava ad ogni angolo della strada, aspettando donne e bambini che volessero assaggiare i suoi saporiti prodotti.

E ancora il macellaio, che preparava minuziosamente tutto il necessario per l’uccisione del maiale e farne salsicce, costolette e il sanguinaccio da spalmare sul pane. A quel punto, ci ricordammo della festa in onore di Sant’Antonio Abate e ci dispiacque molto per il povero maialino che non avrebbe ricevuto, purtroppo, la benedizione.

In quella strada, inoltre, c’erano piccole mercerie che, oltre ai detersivi e affini, vendevano libri, quaderni e materiale per la scuola.

In un largo piazzale posto ai lati della strada, si sentiva l’arrotino che affilava i coltelli delle massaie, che stavano in fila ad aspettare. Dopo tanto cammino, sopraggiunse la sete, entrammo così in un grande cortile, dove c’era un fontana dalla quale zampillava un’acqua freschissima. In fondo, una donna dall’aspetto minuto vendeva liquirizie, gomme da masticare e soldatini di plastica, in uno stanzino al pianoterra.

 



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Nell’angolo del cortile, una larga scala di pietra troneggiava, con piante ornate di fiori multicolori. Dopo aver bevuto, chiesi alla donna: << Chi abita su quelle scale? >>

Lei rispose: << Lassù, all’ultimo piano, vive una nobile signora molto anziana >>

<< Vive da sola ? >> Domandò Luca. E lei: << Sì, vive da sola. Le fanno compagnia i suoi antichi mobili e le campane di vetro che coprono dei bellissimi presepi >>.


Luca rispose: << Che bello! Dei presepi sotto le campane, non ne ho mai visti >>.

Era tutto molto interessante, ma non potevamo chiedere alla signora di farci vedere i suoi mobili antichi e i presepi sotto le campane, anche perché non era detto che ci facesse entrare, dal momento che non ci conosceva.

In ogni caso, non avremmo potuto perdere altro tempo: la nostra missione era un’altra: dovevamo trovare il mulino, prima che facesse buio. Riprendemmo così il nostro cammino. All’improvviso, dall’alto, la signora anziana lanciò dalla finestra una quantità enorme di caramelle “Rossana”, per la gioia di tutti i bambini che stavano lì ad aspettare. Luca ed io cercammo di prenderne, a volo, il più possibile. << Grazie mille, nobile signora! >> Urlò Luca con il maglione pieno di caramelle, che teneva sollevato sui fianchi, con tutte e due le mani.

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Mentre gustavamo le caramelle, offerte generosamente dalla signora, notammo una persona di mezza età che, con un quaderno tra le mani, osservava attentamente l’interno di un grande portone, un po’ più avanti. Al centro dell’aia, c’era un pozzo

artesiano, per la captazione dell’acqua e, sulla destra, appena si entrava, un lavatoio bianco, con un rubinetto collegato alla tubazione, che saliva lungo il muro e una grossa saponetta arancione, ideale per lavare gli strofinacci e la piccola biancheria.  Nell’angolo, dietro il lavatoio, una lunga scala di pietra, come quella che avevamo visto poco prima, ma molto più consumata dal tempo, portava al primo piano della casa che aveva le stanze allineate sul terrazzino, ben visibile dal basso. A pochi metri dalle stanze, c’era una loggetta, che affacciava su un grande giardino pieno di alberi di ogni tipo, davanti a una specie di baracca, che doveva essere la cucina.

Sulla prima rampa di scale era ben visibile un finestrone ad arco, senza infissi, protetto solo da una grata di ferro che dava sulla strada. Riconoscemmo, in quel cortile, alcuni dei bambini che avevamo incontrato poco prima, che portavano i fasci di rami spezzati nella legnaia. Luca chiese loro: << Abitate qui?>> Il maggiore di loro rispose: << Sì, abitiamo qui >>.  Luca replicò: << Dove state andando? >>  

<< A guardare una trasmissione alla TV, a casa della signora “Ferrillo”, come spesso facciamo; ci ritroviamo tutti da lei e, dopo aver seguito i telefilm di “Zorro” andiamo a giocare sulle balle di fieno accatastate nel giardino sul retro. Se vi va, unitevi a noi >>  <<Grazie. Sarà per la prossima volta>> rispose Luca.



Intanto, il signore continuava a scrutare il cortile e sul suo quaderno, simile a quello

che usavamo per le ricerche a scuola, riuscimmo a leggere in modo chiaro il titolo:

“Campi di fragole per sempre. Poesie”.

Il signore, voltandosi verso di noi, disse : << Volete che vi legga una mia poesia? >>

<< Certo! Ci farebbe davvero molto piacere >>. Risposi io. << Ecco, questa l’ho appena composta. S’intitola “Ricordi d’infanzia”, replicò l’uomo >>.

Seduti sullo scalino di una sartoria, chiusa a quell’ora, iniziammo ad ascoltare con una certa emozione la sua poesia che sembrava una filastrocca:

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Ricordi d’infanzia

 

Mi tornano in mente i ricordi d'infanzia,
quei bellissimi giorni dai mille colori,
il sole caldo di maggio,
il profumo intenso dei fiori.
Mi ricordo di un gatto un po’ cieco
e le spighe dorate bollite col sale,

soffice muschio spalmato di brina

pastori di creta per il Santo Natale.

Mi ricordo di quand’ero bambino

il sorriso sincero delle persone più care,

l'acqua fresca delle fontane,

Salerno d’estate e la brezza del mare.

Mi ricordo di un tempo lontano,
gli alberi di ciliegie su una lunga salita,
i nostri giochi per strada,
gli strani disegni fatti a matita.
Mi ricordo di un vecchietto un po’ strano
e le sue calze di lana alla sera,
cani randagi bagnati,
una maestra per niente severa.

Ci interrogava in piedi vicino alla lavagna

italiano, storia e geografia

le mitiche barbabietole da zucchero

veniali errori di ortografia

Mi tornano in mente i ricordi d'infanzia,
le fanfare, le giostre e i libri di scuola,
pozzanghere d’acqua piovana,
la messa col prete cinto di stola.

Ricordo il profumo dei vecchi fumetti

e il cielo di notte pieno di stelle

l’alba  fatata del primo mattino

i sogni di un bambino un poco ribelle.

Mi ricordo della mia umile casa
e della sartoria affianco al portone,
more succose su una foglia di fico,
corse veloci incontro a un pallone.

Mi tornano in mente i ricordi d’infanzia

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il cielo d’autunno color turchese

antichi presepi nelle campane di vetro

altari di marmo delle splendide chiese.

Mi ricordo i campi di grano
e il sapore buono dell’olio sul pane,
gli occhi azzurri di mio padre,
i rintocchi a festa delle campane.

Mi tornano in mente quegli anni meravigliosi

un collage dipinto coi pastelli di cera

lo stupore negli occhi dei bimbi

quando nasceva la luna e scendeva la sera.

 


Luca, sorridendo, disse: << È bellissima! Vorrei anch’io un giorno poter scrivere una cosa così >>. << Grazie >>, rispose il signore.

A quel punto, approfittai della situazione e gli chiesi: << Vedo che anche lei ricorda le cose del passato. Ci potrebbe dire se in questa strada c’era un vecchio mulino per la macina del grano? È da parecchio tempo che lo cerchiamo, ma ancora non l’abbiamo trovato >>.

Il signore subito rispose:

<< Chiedete al fornaio di fronte e a sua moglie, che sapranno sicuramente dirvi qualcosa >>.  << Come si chiama il fornaio? >> chiese Luca.

L’uomo rispose: << Il fornaio si chiama Salvatore e sua moglie Antonietta. Sono due persone buone e gentili. Andate, non perdete altro tempo >>.

Mentre attraversavamo la strada per recarci da Salvatore il fornaio, notammo un grande furgone bianco, dalle fiancate decorate con colori vivaci, che saliva in

direzione della casa dove c’era il negozio di stoffe. Sui lati c’era scritto, a lettere cubitali adesive: “Autotraslochi Salvatori”. Sotto, c’era indicato il numero di telefono.

Il motore faceva un gran fracasso e la marmitta sprigionava un fumo acre e denso che toglieva il respiro.

Il furgone, all’improvviso, rallentò, proprio nel punto dove stavamo noi due, perché la strada si restringeva e non c’era molto spazio.

L’autista abbassò il finestrino e disse: << Spostatevi, bambini. Non vedete che dobbiamo passare? >> Luca rispose: << Cosa trasportate? >>

L’uomo che stava accanto all’autista, sporgendosi verso il lato guida, quasi bisbigliando, disse: << Roba antica, di proprietà di Pasquale il tabaccaio. È per un acquirente che viene da Londra, un suo caro amico emigrato in Inghilterra tanti anni fa >>.


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Replicai: << Finalmente zio Pasquale ha deciso di sistemare un po’ la veranda liberandola da tutta quella roba >>.

E continuai: << Per caso avete preso un quadro che raffigura un mulino e un vecchio libro marrone con lo stesso disegno? >>

<< Certo che li abbiamo presi, così come un violino, una macchina da cucire e tante

altre cose >>, rispose l’autista. E ancora: << Tutti questi oggetti saranno venduti all’asta da “Sotheby’s” >>.  << Sothe…che? >> Rispondemmo in coro Luca ed io.

<< Niente, niente….Ora scostatevi, marmocchi, perché abbiamo tanta fretta e dobbiamo andare >>, replicò l’autista. A questo punto Luca disse: << Cosa sarà mai questo Sothe... Non riesco nemmeno a pronunciarlo, mannaggia! >>

E io, con l’aria di chi la sa lunga, risposi:  << Sarà una vecchia casa arredata con mobili e cose antiche, che si trova a Londra, simile a quella della nobile signora che

lanciava le caramelle dalla finestra >>. Luca annuì e disse: << Ma tu sai dove si trova Londra? >> Risposi: << Beh, non proprio. So solo che, in quella città, c’è un altissimo campanile con un grande orologio che si chiama “Big Ben”, e lì ci sono autobus a due piani, di colore rosso >>.


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Luca replicò: << Comunque, a noi non interessa quello che ha venduto zio Pasquale.

Piuttosto, andiamo subito dal fornaio, che è l’unico che può darci qualche indizio per ritrovare il vecchio mulino >>. Luca aveva proprio ragione! Di fronte al cortile col pozzo, che il poeta stava osservando, trovammo un porticato abbellito da mattoni color rosso porpora, proprio come era raffigurato nel famoso quadro della veranda. Pensammo subito che quello fosse un buon segno. Bussammo ripetutamente, colpendo il martelletto con una mano di bronzo, che era appesa al portone, sul pomello sottostante.

 


La sensazione era che Salvatore il fornaio ci potesse davvero aiutare e che il vecchio

mulino non fosse, a quel punto, troppo lontano.

All’ennesimo colpo, finalmente qualcuno ci rispose : << Chi è a quest’ora? >>

<< Cerchiamo Salvatore il fornaio >>, disse Luca. << Sono io >>, rispose Salvatore, con un gran vocione. << Ma voi chi siete? >> Ribatté.

E Luca: << Beh, per la verità, vorremmo qualche notizia del vecchio mulino. È tutto il giorno che lo stiamo cercando >>. Il fornaio ci disse: << Scendo subito. Non vi muovete! >> Sentimmo il rumore delle scarpe che velocemente ticchettavano sui gradini. Quando l’uomo  arrivò giù nel cortile ansimava per il fiatone.

Aprì il portone e disse: << Entrate, entrate, presto, ma non fate rumore, perché i bimbi stanno dormendo >>. Varcammo la soglia in tutta fretta e, subito dopo Salvatore, serrò l’ingresso dietro le spalle, con un grande maniglione di ferro.

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Una volta dentro, ci disse: << Bambini, ascoltatemi bene, adesso non ho molto tempo, devo preparare l’impasto per il pane e le pizze che dovranno essere pronti per domani mattina. Aspettatemi qui. Non appena avrò finito, vi raggiungerò >>.

Aggiunse subito dopo: << Potete anche curiosare, però, mi raccomando, non combinate guai >>.  Un po’ straniti, rimanemmo soli davanti a quattro porte di legno con le maniglie argentate, allineate lungo tutto il perimetro del cortile.

 

Siccome Salvatore ci aveva detto che potevamo curiosare, entrammo per vedere cosa ci fosse in quelle stanze. Accendemmo la luce. Nella prima stanza, c’era una salumeria con tante cose buone da mangiare. Pensammo che chi gestiva quel negozio alimentare dovesse essere la signora Antonietta, oltre a Salvatore, che si occupava, principalmente, della preparazione del pane. C’erano salami e prosciutti appesi ovunque e una miriade di scatolette di svariati alimenti su per gli scaffali. Un negozio davvero ben fornito! Dietro al bancone, c’era una piccola mensola, sulla quale poggiava una cornice in ceramica. Davanti ad essa candidi fiori sistemati armonicamente in un piccolo vaso. La foto all’interno della cornice ritraeva un meraviglioso Angelo con le ali spiegate che volava sorridente nell’immensità del cielo. 


Nella seconda stanza, trovammo Salvatore, tutto imbiancato di farina, intento a preparare il pane e le pizze con la scarola, sua grande specialità. (Così c’era scritto su un cartello sulla parete della salumeria).

Nella terza stanza c’erano gli attrezzi da lavoro e ancora lunghi contenitori di legno, dove venivano  adagiati i pezzi di pane appena usciti dal forno. Quel locale, anche se aveva cose di natura diversa, ci ricordava da vicino la veranda di zio Pasquale.

Nella quarta stanza, erano sparsi sul pavimento tantissimi giocattoli che sicuramente erano dei figli di Salvatore.  C’erano biciclette, pistole da sceriffo, bambole, costruzioni Lego e tanti altri ancora. Finalmente Salvatore ci chiamò e, dopo essersi

lavato accuratamente le mani nel lavandino accanto al forno, disse: << Bambini, entrate! Vi devo mostrare una cosa >>. Con una torcia accesa, fece cenno di seguirlo.                           

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In silenzio, entrammo in una stanza adiacente al laboratorio per la lavorazione del pane e ci avvicinammo a una grande botte, usata per la conservazione del vino.

La botte era vuota. Salvatore la sollevò, facendola roteare su sé stessa per spostarla e sotto, sul pavimento, c’era una botola di ferro.

A quel punto, Salvatore disse, con un’espressione un po’ mesta:

<< Ecco, sotto questa botola, nel locale interrato, c’è il vecchio mulino >>.

Luca ed io saltammo dalla gioia, urlando: << Evviva, evviva! Abbiamo, finalmente, ritrovato il vecchio mulino! >>

Ci abbracciammo così fortemente da cascare per terra

Con calma, Salvatore il fornaio ci riprese: << State calmi e non vi agitate troppo. Sono trent’anni che cerco la soluzione per aprire la botola, purtroppo ancora non ci sono riuscito >>. << Ma come >> - risposi io << la botola non si apre? >> << Proprio così! La botola non si riesce ad aprire >>. Ribatté Salvatore: << Osservate qui! >> Indicandoci un’intercapedine incisa sul coperchio.

<< Ci sono sedici caratteri, che rappresentano la combinazione per poterla aprire che né io né nessun altro conosce >>.

<< Cooooooosaaaaa ? Sedici caratteri ? >> Urlai, mettendomi le mani in testa.

<< Oh, mio Dio, sicuramente sono quelli scritti sul retro della copertina del libro trovato nella veranda. Usciamo, presto! Dobbiamo rintracciare e bloccare a tutti i costi il furgone della ditta dei traslochi >>. << Ma cosa dici ? A quest’ora, quello sarà sicuramente andato via >>, ribatté Luca.

<< Allora l’unica cosa da fare è andare a Londra >> – replicai.

E Luca: << Ma non dire sciocchezze: noi non sappiamo neanche andare a Napoli, come puoi pensare di poter andare a Londra? Inoltre, ci vogliono tanti soldi, che non possediamo >>.

Mi convinsi che era davvero impossibile aprire la botola. Il sogno di trovare il vecchio mulino era per sempre svanito. Scoppiai in un pianto dirotto.

Stranamente Luca era tranquillo. Al che, asciugate le lacrime, gli chiesi un po’ stizzito: << Perché sei così calmo ? Non ti interessa più il vecchio mulino? >>

Luca con un grande sorriso stampato sul viso, orgogliosamente, disse:

<< Se un libro contiene solo pagine bianche e solo su una c’è scritto qualcosa, allora

vuol dire che ci sarà un valido motivo >>. Io risposi: << Cosa stai dicendo, Luca …Non capisco…>> Luca replicò: << Simone, sai cosa ti dico? Quel libro non vale un fico secco. A tua insaputa, senza farmene accorgere, ho strappato la pagina col codice cifrato e l’ho conservata nella tasca del mio zaino. Eccola, prendila! >>

Un grido sovraumano uscì dalla mia gola, tanto da far svegliare anche i figli di Salvatore, che accorsero nella stanza, seguiti dalla signora Antonietta, un po’ allarmata. << Grandeeeeeeeeeeeeee! Luca, sei grandeeeeeeeeee! >>

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Lo abbracciai con una tale forza che quasi lo strozzavo. Salvatore prese il foglio e con la mano tremante inserì il codice: JL09PM18GH25RS07.  La botola, come d’incanto, si aprì. Scendemmo la scala di legno molto lentamente, uno dopo l’altro e ci trovammo davanti al vecchio mulino. Era ancora intatto, in tutte le sue parti. Aveva ancora le funi con le quali l’asinello trascinava la macina. Una vera meraviglia!

A Salvatore scese una piccola lacrima, poi ci abbracciò con vigore. Rimanemmo a fissare il mulino per parecchio tempo, senza parlare, visibilmente emozionati. C’era anche il libro, identico a quello che stava appoggiato sulla stufa nella veranda, ma, per fortuna, le pagine non erano bianche, tutt’altro. Lo sfogliammo e iniziammo a leggere le origini del vecchio mulino di Calvizzano e dei primi fornai che lo avevano usato. Era ben evidenziato il nome del sig. D’Errico Giuseppe e di sua sorella Luisa, i quali, lo passarono per eredità ai coniugi D’Errico Giovanna e Iorio Alfredo, che erano i genitori di Salvatore, l’attuale fornaio.

Conteneva, inoltre, una minuziosa descrizione del processo di lavorazione del grano e delle varie tecniche studiate nel corso degli anni per migliorarne l’efficienza e tante altre notizie e curiosità.

Un libro davvero molto interessante, scritto da qualche storico del passato.

 


 Mentre leggevo quelle interessantissime pagine, Luca gustava i panini preparati dalla signora Antonietta.

Ad un certo punto, chiusi il libro e dissi al fornaio: << Ma voi conoscete l’uomo che scrive le poesie? >> Salvatore rispose: << Certo! Simone, lo conosco benissimo, giocavamo insieme quando eravamo bambini >>. << E come si chiama? >> Replicai.

Quasi con tenerezza, Salvatore disse: << Il suo nome è Domenico >>.

Provai in quel momento una grande emozione e un largo sorriso illuminò il mio viso. La signora Antonietta si avvicinò, mi accarezzò il capo e teneramente mi baciò sulla guancia. Anch’essa emozionata, asciugò le lacrime di Luca che, seduto sopra a dei sacchi di farina, piangeva come una fontana.

Ormai si era quasi fatta sera, quando uscimmo dal portone della casa di Salvatore.

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Dovevamo tornare a casa al più presto, perché gli zii sarebbero stati in pensiero, non

vedendoci arrivare. Salvatore il fornaio ci indicò così la direzione:

<< Proseguite sempre dritto. Alla fine della strada, alla vostra destra, noterete una grande piazza, con la maestosa Chiesa della Madonna delle Grazie, sede della Parrocchia di San Giacomo Apostolo e, subito dopo, il bellissimo monumento in memoria dei Caduti in guerra di Calvizzano.

Vi troverete a quel punto sul corso principale del paese “Via Conte Mirabelli” e di lì riconoscerete senz’altro la strada per rientrare a casa >>.

Rispondemmo all’unisono: << Grazie tante, Salvatore! >>  << Aspettate >> – disse ancora l’uomo. << Voglio regalarvi una poesia che conservo da anni tra le mie scartoffie. Non ne conosco l’autore, ma sicuramente ha vissuto in questo luogo.  

Eccola, conservatela e ricordatevi sempre di questa strada e di questo posto. >>

Chiusa in una piccola busta, Salvatore mi consegnò la poesia.

Con un cenno della mano ci salutammo reciprocamente e la signora Antonietta, da lontano, ci raccomandò di fare attenzione. Seguimmo la strada, come ci era stato indicato e, raggianti, ci incamminammo verso il corso principale del paese. Entrambi eravamo consapevoli di aver vissuto la più grande e meravigliosa avventura di tutta la nostra vita. Prima di percorrere tutta la strada, ci fermammo a leggere la poesia che recitava così:

 ‘Na jurnata è maggio (a Via Molino).

 

L’orologio è fermo ‘ncoppa ‘o campanaro,

‘o sole s’annasconne areto o’ vicariello

seduto all’ombra e nu ciardino 

riposa già da ore ‘o vicchiariello.

Guarda ‘a gente che passa là vicino,

tene e mmano appuiate a ‘nu bastone

parla da nnamurata soja

e si ricorda di quand’era nu guaglione.

Dinto ‘o cielo azzurro e nuvole parano pucurelle,

nell’aria fresca se sente forte addore e maggio;

in ginocchio e signore vasano a Maronna

e lasciano ‘na rosa bianca come dolce omaggio.

Dopo ‘a messa tornano ‘a casa ca curona ‘mmano

annaffiano e gerani che tenono fora a porta

e di quando portavano i fiori dinte e capille

a stu tiempo “nfam” nun ce ne mporta.

 

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‘O sagrestano ha stutate tutte ‘e cannele sull’altare

a Maronna finalmente s’arriposa

dimane arriva ‘na giovane ragazza

che prega ogni juorno pe diventà ‘na sposa.

Sta scenneno a sera a Via Molino 

le mamme, dal balcone, chiamano e creature:

stanno ancora pazzianno

a quel meraviglioso gioco sotto ‘o mur.

Ormai a luna se addurmuta vicino e stelle.

’A Vergine Maria ha donato ‘o core e le sue virtù

e signore chiurono a fenesta

e pensano quand’era bella la loro gioventù!

 

 


Provammo una certa emozione dopo aver letto questi versi, così conservammo la poesia con molta cura nella tasca dello zaino e proseguimmo felici verso casa.

In un baleno, arrivammo ai piedi della maestosa Chiesa, salimmo i gradini che portavano alla porta d’ingresso e ci sedemmo in religioso silenzio ad osservare il meraviglioso altare di marmo antico. Il soffitto aveva le rifiniture dorate e un grande organo era adagiato su una balconata di legno che sembrava la terrazza di un teatro. Era una chiesa stupenda, una delle cose più belle mai viste finora. Uscimmo dal lato opposto, oltre la porta centrale e di lato, sull’altra rampa di scale, al centro, un piccolo giardinetto faceva da cornice al monumento in onore dei caduti in guerra.

Era costruito con pietre levigate ad arte. Incastonato fra le pareti sistemate con maestria, al suo interno c’era un cannone usato nella prima guerra mondiale, che era stato sottratto agli austriaci in ritirata, nella battaglia che portò alla vittoria l’esercito italiano, nel novembre del  1918. Una grande lapide marmorea recava i nomi di tutti i soldati locali morti per servire la Patria, a imperitura memoria. In basso, inciso su una lastra di granito bianco, il nome di chi aveva progettato e realizzato quell’opera era scritto in bell’evidenza: “Costruttore Michele Ciccarelli”.




                                                                                                       Pag. 28

Arrivati sul corso ci ritrovammo in un corteo di pie donne, con il velo abbassato e il rosario tra le dita. Una di loro ci disse che andavano a recitare il rosario presso una piccola cappella che si trovava più avanti in un angolo di via Campo, la quale custodiva una meravigliosa immagine, su mattonelle maiolicate, della Vergine Maria.

Incuriositi da quello che ci aveva detto l’anziana signora e non essendoci ancora nessuno sull’uscio di casa ad aspettarci, decidemmo di proseguire insieme al corteo.

 Addereta ‘a Marunnella

 

Quanno passo addereta a’ Marunnella

mi faccio, umilmente, a’ croce

a’ guardo fisso dinta a l’uocchie

e dico na’ preghiera cu nu filo e voce

Tene sempre fiori freschi e tutte e’ specie

a’ faccia soja è cchiù rosa da’ Gioconda

pare che te parla attraverso o’ vetro

è n’emozione ogni vota cchiù profonda

'A fa cumpagnia, dinto 'a cappelloccia

'na statua 'e bronzo e Padre Pio

parano proprio frate e sora

c' meraviglia 'a misericordia ''e Dio

Si trova o’ stesso posto a’ cchiù e’ cient’anni

i’ vecchie antiche ievano a dicere o’ rusario

s’assettavano ‘ngoppe e suggiulelle

ogni juorno o’ stesso orario

E’ sempe stata all’angolo, abbascio o’ campo

mma rricordo comme fosse aiero

a’ tuccavo cu’ doje mano

e pareva che risponneva cu’ pensiero

Tutta Calvizzano è devota a’ Marunnella

cu’ San Giacomo è a’ cosa cchiù preziosa

e quanno chella notte s’hanna arrubbata

c’è stata a’ processione e na’ funzione religiosa

 

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Poi finalmente è turnata mieza a nuje

comme na’ mamma ca’ s’abbraccia e figli

chillu juorno addereta a’ Marunnella

se senteva forte addore e’ gigli

E’ passato tantu tiempo ormai

ma a’ Marunnella mai c’abbandona

e quanno facimmo nu’ peccato

c’accarezza o’ core e ci perdona

Ormai era scesa la sera. L’insegna “Sali e Tabacchi” del negozio di zio Pasquale, si illuminò, la scorgemmo da lontano e così decidemmo di ritornare indietro per raggiungere  la casa di Luca prima che le pie donne avessero terminato il rosario.

Sul portone, zia Ida ci aspettava, un po’ preoccupata, tenendo tra le mani un vassoio pieno delle famose fette di pane con olio e zucchero, che tanto ci piaceva mangiare.

 



Prima di abbracciare la zia mi rivolsi a Luca: << Grazie di cuore per tutto quello che

hai fatto: senza di te, non avremmo mai ritrovato il vecchio mulino >>.

Luca visibilmente emozionato rispose: << Grazie a te, Simone, per tutto il tempo che abbiamo trascorso insieme >>. Poi continuò: << Saremo sempre amici, vero? >>

Ed io: << Come puoi dubitarne… L’amicizia è il sentimento più importante che possa esistere, è un bene prezioso che ci è stato donato ed è per questo che lo dobbiamo custodire con cura.  Certo, Luca. Saremo amici per sempre.

 


 Entrammo insieme nel cortile, la Madonnina di Lourdes, avvolta da luci a forma di stelle e circondata da profumatissimi fiori, ci stava aspettando, col suo dolce sorriso.

La luna iniziò a brillare nel cielo e sul fortino dei “Lupi dell’Ontario”, del leggendario Comandante Mark, scese lentamente la notte.

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L’autore ringrazia di cuore il prof. Trinchillo, le famiglie Iorio e Palumbo

  

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