Della sua cattura ne parla lo storico Peppe Barleri, buonanima, nel suo libro “Il brigantaggio post-unitario a Nord di Napoli". Alla sua memoria, come ad altri combattenti, non è stato dedicato nessun monumento o epigrafe civica.
Era il terrore dei miliziani sabaudi di stanza tra Napoli e Terra di Lavoro nei primi mesi dell’Italia unita. Si chiamava Alfonso Cerullo. Era il capo banda di un manipolo di uomini, circa una cinquantina ed in seguito un centinaio, ex soldati del disciolto esercito borbonico, che, non volendo sottostare alle vessatorie condizioni di resa di Gaeta, si dettero alla macchia, combattendo quotidianamente i soldati piemontesi e la stessa polizia post-unitaria del discusso don Liborio Romano.
Alfonso Cerullo,
nacque nelle fertili campagne di Marano di Napoli nel 1837 da padre contadino,
Salvatore, e da Angelamaria Napolano, casalinga. Si arruolò giovanissimo nella
Reale Gendarmeria Borbonica a cavallo, che aveva compiti d’ordine pubblico,
forza armata della giustizia e vigilanza e sicurezza del territorio, ed all’età
di ventisette anni rivestì il grado di caporale, che assolse con perizia e
carisma, tanto che dopo la capitolazione di Gaeta, con il suo reparto, che era
di stanza nella regione Abruzzi, ripiegò a Cisterna e da lì si diede alla
macchia, non volendo sfruttare l’opportunità avuta di continuare il servizio
militare nell’esercito di un nuovo Sovrano, di un altro Re.
Tornato nella
sua Marano e conosciuto un sostenitore del deposto Regime, un certo Macedonio di
Maria, che esercitava il mestiere di sarto e che asseriva che Re, Francesco II,
sarebbe ritornato presto al suo posto, si fece convincere da quest’ultimo ad
organizzare una rivolta per resistere all’esercito occupante piemontese.
Una prima banda di circa venti uomini a cavallo, il Cerullo la raggruppò fra
gli ex soldati sbandati del circondario dei casali del Nord di Napoli, rimasti
fedeli al loro giuramento e nostalgici del regno borbonico, e con essa iniziò a
depredare i posti della guardia nazionale di Marianella, di Polvica, di
Mugnano, prendendo i fucili e abbattendo lo stemma dei Savoia e distruggendo i
ritratti di Vittorio Emanuele II e di Garibaldi.
Per rendere più
clamorose le sue sortite, obbligava agli uomini di guardia dei presidi, che
sorprendeva di gridare :“ Viva Francesco II e Maria Sofia, i veri reali di
Napoli”
Questi inaspettati attacchi alle caserme ed ai presidi del disciolto Reale
Corpo dei Carabinieri, che nel 24 gennaio del 1861 si trasformò in Arma dei
Carabinieri, dislocati nel territorio, resero necessaria l’istituzione di un
tour de fource, di più uomini, costituito dalla Guardia Nazionale in
collaborazione con reparti speciali di Bersaglieri e di soldati della Guardia
Mobile per setacciare il vasto comprensorio a Nord di Napoli, dove operava la
banda Cerullo.
Più che un
Brigante, Alfonso Cerullo, era un autentico partigiano borbonico, tanto che osò
sfidare l’esercito piemontese con un manipolo di compagni, innalzando su un
albero nel bosco della collina dell’Eremo Camaldolese il Vessillo Gigliato
dell’antico Regno, donatogli da alcuni affiliati, che l’avevano requisito ad
abili tessitrici mugnanesi, e tanto era grande, che era ben visibile dai paesi
sottostanti della collina fino alla piana di Melito, Giugliano e Sant’Antimo.
Terminate le
proficue incursioni nelle varie masserie della zona, si rifugiava nella Selva
di Chiaiano, nella famosa Grotta del Brigante, antica cava ben nascosta dalla
folta vegetazione, per sfuggire ad un’eventuale cattura e da cui poi ripartiva
per altre e nuove scorribande per procacciarsi viveri e vettovagliamenti per la
sua banda. La banda del Cerullo era anche in contatto con altri gruppi di
briganti, anch’essi operanti nell’entroterra della Provincia di Napoli, come
quella di Crescenzo de Matteo nell’entroterra aversano, la banda di Salvatore
Reppe nella zona di Qualiano Quarto, la banda di Salvatore D’Alterio detto “‘o
Squarcione” in quella di Giugliano e tanti altri gruppi e tutti insieme
formavano il comitato insurrezionale dell’area nord di Napoli, che aveva come
disegno strategico militare, il ritorno, appena possibile, del Re Borbone.
Queste bande
Partigiane Borboniche divennero padroni incontrastati del territorio e
spaziavano dai Camaldoli al Lago di Patria fino a Soccavo e Pianura e per il
numero sempre crescente d’esse, costrinsero a Vittorio Emanuele II, ad ordinare
al Generale Cialdini di procedere ad una massiccia repressione.
Si misero taglie sulla testa dei più noti capibanda e così iniziò una vera
caccia ai cosiddetti briganti di casa nostra. Scesero in campo circa cinquemila
uomini armati per stanarli oltre alle forze locali ed ai carabinieri.
Il nostro eroe,
Alfonso Cerullo, fu preso nei pressi della Taverna del Portone, vicino al posto
di Dogana al Frullone sulla Strada Santa Maria a Cubito, tradito da un certo
Michele Lucchesi, la sera del 28 novembre del 1864. Interrogato l’indomani, il
29 novembre 1864, dall’Ispettore Federico Sbarri della Questura di Napoli,
com’è riportato dallo storico maranese Barberi nel suo libro, (il Cerullo
“giustificò la sua ribellione, non volendo sottostare al nuovo regime e
dichiarò che non si era mai macchiato né lui, né i componenti della sua banda,
di nessun crimine, specie ,quello addebitatogli, dell’assassinio del
carabiniere Maurizio Gorelli, avvenuto il 16 maggio 1863, che gli era
attribuito, dichiarando altre sì che non si era mai scontrato con l’arma, anzi
la rispettava, essendo stato lui stesso un gendarme per il passato).
Con un processo
sommario fu richiuso in Castel Capuano e dovette scontare una pena di 25 anni
di galera. Scontata la pena all’età di 53 anni il 29 marzo del 1890 morì a
Marano.
Alfonso Cerullo, esempio di uomo leale, rispettoso del giuramento fatto al suo
Re, fu per più di un secolo dimenticato, e poiché la storia, molto spesso la
fanno i vincitori, fu facile per i conquistatori piemontesi (passati alla
storia come i liberatori del Regno delle Due Sicilie) decretare il nostro eroe
e tanti altri martiri, che si batterono contro la tirannia savoiarda per
difendere la loro patria nel rispetto delle proprie idee, dei briganti
malfattori, coprendoli d’ignominie.
Fonte
XD comunicazione e informazione
Alla sua memoria, come ad altri combattenti, non è stato dedicato nessun monumento o epigrafe civica.