Il premio, di nuova istituzione, va agli
artisti che sappiano valorizzare la musica e il canto, fungendo da esempio per
tanti giovani del territorio
Perché Peppe Cavallo? Cantante e chitarrista calvizzanese, con i Ligantropi,
la band tributo a Luciano Ligabue, nata da una sua idea, è riuscito ad esportare la buona musica fuori dai confini
locali, ad emergere nel panorama rock campano e a farsi conoscere in altre
parti d’Italia. Cavallo è stato uno degli allievi preferiti di Otello Di Maro,
tant’è che dal bluesman calvizzanese (deceduto diversi anni fa) ebbe regalato una chitarra datata 1969 che custodisce
gelosamente.
La chitarra che gli regalò Otello
Una delle tante esibizioni dei Ligantropi
Otello Di
Maro, il cantante-poeta simbolo civile di una città dal volto umano
Diversi anni fa, un comitato fece registrare un
cd con le sue canzoni e istituì un concorso di poesia per giovani talenti;
l’amministrazione di Calvizzano manifestò l’intenzione di fare qualcosa in sua
memoria, ma poi tutto è finito nel dimenticatoio.
Otello Di
Maro si tolse la vita a 54 anni, con un cappio alla gola, in una gelida
vigilia di Natale del ’98. Lo fece a mezzanotte, con lucida premeditazione. La
sua è una storia “della porta accanto” che merita di essere raccontata. Era un
“nero a metà”: frutto dell’amore di una ragazza di Calvizzano per un militare
americano di colore, che aveva promesso di sposarla a guerra finita, ma non si
era visto più. Poco più di 60 anni fa, una ragazza madre e un “negro”, diverso
suo malgrado (nessuno gli avrebbe dato in sposa una figlia), erano segnati a
dito; perciò, avevano vissuto arrangiandosi. Ma Otello studiò da autodidatta,
imparò a suonare e coltivare la poesia e interessi multiformi che spaziavano
perfino nell’occultismo. Negli anni ’70 si esibiva insieme con Mario Musella,
il bluesman di “Un’ora sola ti vorrei”. Faceva l’imbianchino e gli piaceva
spendere quel poco che guadagnava. Trascorreva gli altri giorni al biliardo con
gli amici o al tavolo verde, dato che era anche un giocatore di carte. Sui
giornali, il suo suicidio fu archiviato come il caso di un reietto, un
disoccupato, un malato di solitudine. Ma Otello non era così. Dalla raccolta
delle sue liriche e testi musicali, pubblicata postuma a cura di Paolo Ferrillo
e altri amici, emerge l’immagine del poeta di colore che ha conservato in
musica e versi la storia disperata della sua anima e della sua voce blues, come
ripeteva lui stesso. Suonava la chitarra e aveva una tastiera per arrangiare
canzoni. Era uno spirito libero desideroso di giustizia, un cantore
metropolitano incline a fondere la poesia con la musica e a inseguire il mito
della vita come opera d’arte. La morte della madre fu un brutto colpo: venne a
trovarsi solo in “uggiosa misantropia”, dice in una lirica. Da questo nasce in
lui la convinzione di un destino già scritto, oltre il quale esiste solo
“l’empio gesto della disubbidienza”, il suicidio che meditava da tempo. Il
giorno di San Giuseppe del ’98, a un carissimo amico maranese, Peppe Biondi,
regalò del liquore marca “Otello”, dicendogli di brindare quando sarebbe morto.
Forse voleva che la sua vita finisse come un romanzo ottocentesco, con la
speranza che l’aldilà non fosse diviso in bianchi e neri o ricchi e poveri. E
così, trovò il coraggio e il modo di non tornare indietro. Fece scomparire
tutti i vestiti fino all’ultimo calzino; scrisse agli amici di dimenticarlo;
lasciò sul comodino una foto e 10mila lire “Per Caronte”: un’ultima citazione
dall’inferno dantesco, partorita con la rassegnazione di chi sa che il Dio dei
giusti, da lui tanto cercato, non l’avrebbe accolto. Infine, la morte, alla
maniera di un eroe alfieriano, estrema protesta contro un mondo che non gli era
piaciuto. Diversi anni fa, un comitato fece registrare un cd con le sue canzoni
e istituì un concorso di poesia per giovani talenti; l’amministrazione di
Calvizzano manifestò l’intenzione di fare qualcosa in sua memoria, ma poi tutto
è finito nel dimenticatoio.