Calvizzano: intervista a don Francesco Cerqua, “un vero uomo di Dio”


Don Francesco, vuole parlarci delle sue origini?

Come forse molti sapranno (me lo ricordano spesso quando mi incontrano), le mie origini sono “per metà” calvizzanesi, in quanto mia mamma è originaria di Calvizzano, mentre mio padre è di Qualiano. Io, invece, sono nato ad Aversa 38 anni fa, dove ho sempre abitato  insieme con la mia famiglia, composta oltre che da me e i miei genitori, da un fratello più grande e da due sorelle più piccole.

Oltre alla sua collaborazione nella Parrocchia Santa Maria delle Grazie di Calvizzano, quali altre mansioni svolge e quali sono state le sue precedenti esperienze?
Sono stato ordinato sacerdote il 12 settembre del 2004, per cui da poco ho festeggiato il tredicesimo anniversario. Subito dopo l’ordinazione sono stato nominato educatore in Seminario, incarico che ho ricoperto per 6 anni, fino al giugno 2010: in quegli anni ho collaborato presso diverse parrocchie, prima quella di Santa Rita a Villaricca, poi quella di San Pietro Apostolo in San Pietro a Patierno e, infine, proprio presso la parrocchia di San Giacomo a Calvizzano. Nel 2010 il Cardinale mi ha inviato come parroco nella comunità dell’Annunziata in Marano, esperienza molto bella ed arricchente, dopo quattro anni, poi, nel 2014, il nostro Arcivescovo mi ha richiamato in Seminario con l’incarico di vicerettore, che ancora oggi ricopro, lasciandomi come collaboratore nella stessa parrocchia dell’Annunziata. Poi, da gennaio 2017,  collaboro presso la nostra comunità di Calvizzano.

Ci racconti di quando ha capito per la prima volta di voler consacrare la sua vita al Signore…
In realtà la mia intuizione vocazionale è molto particolare, oggi abbastanza rara. Infatti, la prima volta che ho pensato di diventare sacerdote avevo solo 9 anni: ero stato a messa come ogni domenica e avevo svolto il servizio all’altare da ministrante. Tornando a casa, dissi ai miei genitori che sarei voluto diventare sacerdote. In quel momento non capivo cosa volesse dire e non avevo ben chiaro cosa volesse significare, quel desiderio, però, è rimasto vivo in me, per cui i miei genitori ne parlarono con l’allora mio parroco padre Alfonso Ricci, della Parrocchia san Pasquale Baylon in Villaricca, e così, dopo poco, iniziai a frequentare la Scuola Apostolica (le Scuole Medie, in Seminario: andavo ogni mattina e ritornavo poi nel tardo pomeriggio a casa); dopo ho frequentato il liceo al Seminario Minore e poi gli studi Teologici al Seminario Maggiore, fino a diventare sacerdote.

Ci sono stati momenti in cui ha pensato di non essere all’altezza della chiamata?   Se si, come li ha affrontati?

Ci sono stati (e in realtà direi: ci sono ancora) momenti in cui ho pensato di non essere all’altezza di questa missione così alta: la prima volta è capitato quando ero al quarto anno di liceo e, prendendo maggiormente coscienza dei miei limiti umani, ebbi consapevolezza di non meritare tutto questo. Allora, come oggi, ho però scoperto una cosa importante, che mi sostiene: Dio non chiama in base ai nostri meriti, ma per un dono grandissimo del suo amore, per cui è Lui a rendere capaci e a sostenere nel ministero! E questo vale per ognuno di noi: è vero che non siamo all’altezza, ma Dio non ci chiama per questo. Ci sceglie perché ci ama ed è Lui a sostenerci; non dobbiamo avere paura!

Ma lei si sente un prescelto, un predestinato o un “volontario”?
Direi tutti e tre e mi spiego. Certamente sono stato scelto dal Signore che ha voluto farmi questo dono immenso, Lui che mi ha predestinato – come dice la Scrittura – alla salvezza e ad essere felice in Cristo; d’altra parte, però, c’è stata anche la mia adesione, la mia scelta di dire sì a Dio e di corrispondere al suo progetto. Direi quindi che mi sento una persona amata gratuitamente da Dio e da Lui predestinata alla vita piena e felice, che ha volontariamente aderito al suo progetto e alla sua chiamata, riconoscendo che in essa c’è la mia gioia più grande. Questo vale per ogni vocazione (anche quella al matrimonio, alla vita consacrata, ad un lavoro): non è una camicia di forza nella quale il Signore ci chiede di entrare, ma una sua libera scelta che chiede una nostra volontaria risposta, e quando queste si incontrano scatta la felicità!

Nell’ immaginario  collettivo, il nemico con cui deve fare i conti un sacerdote, una volta chiuse le porte della Chiesa è la solitudine. Lei come risponde ?
Certamente la solitudine è un “nemico” con cui un sacerdote deve fare i conti (ma vi assicuro che ce ne sono anche altri…). Nella mia vita ho avuto la fortuna, fin dagli anni di seminario, di sognare insieme ad altri la vita comune, cosa che si è realizzata già dal mio diaconato; oggi, quando non sono in Seminario, vivo in una fraternità sacerdotale insieme ad altri 8 sacerdoti, tra cui il nostro carissimo don Ciro. L’amicizia tra presbiteri e la vita fraterna, che poi sperimento anche in seminario dove sto con altri sacerdoti, è la risposta più valida alla solitudine. Ce ne sono poi anche altre, senza dubbio; innanzitutto la preghiera personale, dove sperimento che il Signore è al mio fianco e non mi lascia mai solo; e poi l’affetto e la vicinanza delle persone della comunità: in questi anni ho sempre avuto tante persone che mi hanno voluto bene e questo è stato un valido sostegno. Per noi sacerdoti è fondamentale che le persone più che star pronte a puntare il dito sui nostri errori (che pure ci sono), ci facciano sentire il loro calore, il loro affetto e il loro sostegno!
In quale campo sente maggiormente la sua predisposizione di servizio al prossimo?

In questi anni, cambiando tante parrocchie e con l’esperienza pure del seminario, ho avuto la grazia di fare numerosissime esperienze pastorali, anche molto diverse fra di loro. Se dovessi riconoscere la mia predisposizione direi che la avverto nel servizio alla comunità parrocchiale, in modo particolare nell’ascolto personale come è la confessione e la direzione spirituale; inoltre, forse anche perché sono stato sempre in mezzo ai giovani, è certamente questo un ambito che avverto a me molto confacente. Ma d’altra parte ho vissuto belle esperienze con i bambini, ma anche con gli ammalati… e poi con le coppie di sposi. Forse è vero che, quando si è al servizio del Signore, è tutto bello.

Quali sono i suoi hobby e le sue passioni, oltre la sua missione?
Beh, qui mi è molto facile rispondere: la mia passione più grande, ovviamente non considerando il ministero, è il calcio. Mi piace praticarlo (e per questo tante volte mi sono anche infortunato) e mi piace seguirlo, di qualsiasi categoria e latitudine sia. Parlando sempre di hobby direi “profani” c’è anche la lettura di romanzi, soprattutto gialli, e la visione di qualche serie televisiva, di tipo poliziesco e psico-triller. Certo pure viaggiare non mi dispiace, ma quello, purtroppo, posso farlo molto raramente.

Da quanto tempo, dove e come ha conosciuto don Ciro?
La conoscenza con don Ciro è oramai molto lunga. Risale all’incirca al 1996-97, quando stavo concludendo il mio percorso al Seminario Minore; sono quindi oltre venti anni. In quel periodo, infatti, iniziammo insieme ad altri due seminaristi della nostra parrocchia, don Giuseppe Tufo e don Giovanni Tammaro, ad organizzare attività a livello interparrocchiale; fu così che conobbi diversi giovani della comunità di Calvizzano, ed anche don Ciro, che allora era ancora studente di Chimiche e Tecnologie Farmaceutiche. Abbiamo da allora vissuto tanti momenti pastorali insieme: ritiri, campi scuola, esperienze giovanili e, poi, quando lui ha iniziato il Seminario, io ero educatore, per cui abbiamo condiviso anche quel periodo, culminato con la collaborazione in parrocchia dal 2008 al 2010, con l’allora compianto parroco don Luigi Ferrillo.

Ci racconti un episodio della sua esperienza a Calvizzano che le è rimasto particolarmente impresso.

Sono tante le esperienze vissute e significative. Dovendo citarne una sola, direi quella del “Villaggio di Dio” (oratorio estivo, ndr), anche perché, non stando in Seminario in quel periodo, ho avuto modo di viverla a tempo pieno; i bambini portano poi tanto entusiasmo, per cui mi sono molto divertito, soprattutto nel fare i balletti, che per me che sono “come un pezzo di legno” (così mi definisce chi mi vede ballare) sono una vera prova, ma anche una gioia. Non vorrei però fare “torto” a tanti altri momenti belli vissuti: i ritiri, le adorazioni, gli incontri nei gruppi… ma anche gli incontri personali, i colloqui.

Se in questo momento il suo Vescovo le chiedesse di scegliere una destinazione futura, cosa gli direbbe? Insomma la domanda finale canonica che rivolta a un sacerdote va posta in un certo modo è questa: Progetti per il futuro?
Questa domanda è particolare per noi, che nel giorno dell’ordinazione abbiamo fatto promessa di obbedienza al Vescovo. Per questo rispondo che, innanzitutto, il “grande progetto” per il futuro è quello di compiere la volontà di Dio. Alla luce però delle esperienze pastorali già vissute, posso dire che non mi dispiacerebbe ritornare ad essere impegnato a tempo pieno nella pastorale parrocchiale, magari con il ministero di parroco. Ma al momento non ci pensiamo, perché ciò che conta è il presente: cercherò di vivere al meglio il mio servizio in seminario e qui a Calvizzano… e sforziamoci di costruire insieme il Regno di Dio. Buon cammino a tutti, e grazie del grande affetto che fin da subito mi avete dimostrato.

 Gennaro GB Ricciardiello












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