La storia di Ida Dalser, presunta moglie di Benito Mussolini



Forse era un po’ eccentrica, testarda e impulsiva.  Ma di sicuro non matta.  Eppure 
io sono sepolta in un volgare manicomio, tra tisici, sifilitici, fra urla demoniache che mi assordano giorno e notte, priva di notizie dei miei famigliari, nonché del mio fanciullo e dei miei bisogni più impellenti (senza scarpe), fra poveri spiriti esasperati dementi”, scriveva intorno alla metà degli anni Venti, nell’Ospedale psichiatrico di Pergine.  Ida Dalser era stata internata, non perché matta, ma perché pericolosa: la sua storia nascondeva un segreto troppo compromettente per il regime fascista.  Lei era stata l’amante di Benito Mussolini, era la madre di un suo figlio e dichiarava di essere anche la moglie legittima del duce.  Il tutto durante la dittatura, quando l’internamento al manicomio era regolato, secondo la legge Giolitti del 1904, dal Ministero dell’Interno e dalle Prefetture, due organismi statali in mano al regime fascista, che ha zittito per sempre la scomoda testimone.
La Dalser era nata nel 1880 a Sopramonte, in provincia di Trento.  Dopo aver studiato a Parigi apre un salone di bellezza a Milano.  È in quella città che conosce e si innamora del giovane giornalista Benito Mussolini.  In molti sostengono che si siano sposati in chiesa a Milano nel 1914: non ci sono documenti, ma il comune di Milano aveva riconosciuto alla Dalser un sussidio di guerra in quanto moglie del bersagliere Mussolini partito per la prima guerra mondiale.  In quel periodo la Dalser dà alla luce un figlio, Benito Albino, figlio naturale riconosciuto da Mussolini, che però durante la guerra sposa civilmente, per procura, Rachele Guidi. Poi inizia l’ascesa politica del duce, culminata con la marcia su Roma del 1922 che lo fa diventare Presidente del Consiglio.  Il nuovo capo del governo deve fare i conti con la Dalser, che non si rassegna alla perdita del suo amato e continua a dichiarare di essere la moglie e la madre del figlio di Mussolini.  Tra loro inizia una guerra a distanza, ovviamente impari: la donna scrive lettere in cui rivela i finanziamenti occulti del suo giornale, il “Popolo d’Italia”, il capo del governo fa piantonare casa sua e la fa seguire ovunque.  

Nel 1926, mentre la Dalser cerca di incontrare 
un Ministro a Trento, viene prelevata dagli agenti, portata in questura, legata su una barella, visitata da un dottore, un otorinolaringoiatra per la precisione, che decreta la sua instabilità mentale, per la quale viene trasportata d’urgenza e in gran segreto al manicomio di Pergine.  In merito a questa esperienza, scrive in una lettera: “Alle 5 del mattino sono arrivata a Pergine cadaverica, svenuta.  Varcato il portone svenni.  M’hanno piombato in una puzzolentissima cella, chiusa a catenaccio, senz’aria che chiedevo per pietà.  Ero fra i pazzi, fra urla demoniache”.

Ma questa lettera, come quasi tutte quelle che scrive, non uscirà mai dal manicomio.  A lei 
infatti era vietato ogni contatto con la realtà esterna: niente lettere, niente visite, niente notizie dei suoi familiari, neanche di suo figlio.  Il trattamento a lei riservato era molto crudele, come si può capire da questa lettera scritta nel 1932: “Non satura l’infermiera di avermi legato mani e piedi applicandomi le torture del medioevo m’ha imbacuccata la testa con le coperte di lana nelle quali svenni soffocata.  Senza aiuto, poiché l’ordine era così.  Mille volte la fucilazione nella schiena piuttosto che vivere tormenti senza pace alla mercé dei bruti”.

Dopo una fuga nel 1935, la Dalser viene catturata di nuovo e trasportata
 nel manicomio di San Clemente a Venezia, dove il trattamento a lei riservato era anche peggiore.  Qui muore nel 1937 per emorragia.  Poco prima di morire scrive dal manicomio di Venezia: “Mi dibatto da dieci mesi fra stenti e dolori inauditi… in una miserabile cella… un vitto intollerabile… mai una passeggiata e un raggio di sole, qui non v’è apparecchi elettrici con motore per le inalazioni e la circolazione del sangue, costì c’è la camicia di forza e i covili in cui accettano le persone sagge per renderle folli”.  Il suo corpo viene inumato nella fossa comune di San Clemente a Venezia.

Suo figlio non fa una fine migliore.  Benito Albino viene portato via di forza
 dalla famiglia d’origine, gli viene tolto il cognome di Mussolini e anche lui viene internato in un manicomio, a Milano, dove muore a soli 26 anni per marasma, termine medico per indicare un decadimento estremo del fisico.  Anche il suo corpo viene inumato in una fossa comune.  Dopo la caduta del regime, i parenti di Ida e Benito Albino hanno chiesto giustizia: nel 1946 la magistratura ha aperto un’inchiesta, ma con la nascita della Repubblica viene concessa un’amnistia per i reati commessi nel periodo fascista e gli atti processuali vengono archiviati.

FONTE
- Le lettere di Ida Dalser si trovano nel libro di Marco Zeni: “La moglie di Mussolini”, edizioni Effe Erre.



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