“L’azienda
che dirigevo ha pagato il mio impegno politico per la città”
Siamo andati a trovare Mauro Bertini, oggi
consigliere comunale di opposizione a Marano, nella masseria di Villaricca,
dove vive insieme alla sua compagna, per farci spiegare come stanno realmente i
fatti che riguardano il fallimento della Comunità Artigiana, l’azienda da lui
creata e che arrivò a contare in organico fino a 95 unità.
“La
Comunità Artigiana – comincia Bertini - è stato un esperimento di comunismo
applicato all’impresa, un tentativo di impresa a gestione orizzontale, dove
tutti quelli che ci lavoravano, dall’amministratore unico all’apprendista,
erano proprietari a pieno titolo e avevano tutti gli stessi diritti e gli
stessi doveri. Per affermare il principio della titolarità, la Comunità
Artigiana fu costituita non sotto forma di cooperativa (dove gli organismi
dirigenti gestiscono e gli operai lavorano), ma si costituì in un’anomala
società in nome collettivo, nella quale ognuno conferisce non solo la propria
professionalità, ma anche tutta la responsabilità personale. Nacque nel 1969
con tre soci e, negli anni, si sviluppò fino a diventare, per un significativo
periodo, la più grande impresa, in Italia, per le verniciature civili, potendo
contare su un organico operativo che arrivò fino alle 95 unità, distribuite fra
la sede principale di Marano, una filiale a Roma e una a Milano, con commesse
in Italia e in Europa (abbiamo avuto Eurodisneyland a Parigi fra i nostri
cantieri) per arrivare fino in Arabia Saudita. Insomma, un fiore d’impresa con
un fatturato mensile che sfiorava il milione di euro. E’ ovvio, consentitemi
uno spunto polemico, che un’avventura di queste dimensioni difficilmente
potrebbe essere alla portata di uno che è abituato ad amministrare un
condominio”.
Nelle sue mani, però, quest’avventura è fallita.
“Il
tallone d’Achille di una società, costituita interamente da lavoratori, è la
mancata capitalizzazione iniziale, e quell’idea sociale troppo avanzata non ha
consentito la capitalizzazione in corso d’opera, per cui il livello finanziario
è sempre stato l’anello debole della catena che, comunque, ha resistito finché
le banche ci hanno dato fiducia. Credo, inoltre, di aver, in discreta misura,
contribuito al declino, estraniandomi sempre di più dalla vita aziendale, per
dedicarmi alla città di cui ero sindaco. E la mia funzione di sindaco, con
tutti gli attacchi che si sono scatenati sulla mia persona per farmi fuori, è
stata la causa del tracollo”.
Può essere più chiaro?
“La
vicenda giudiziaria (iniziata con le dichiarazioni del pentito di camorra che
mi procurò un 416 bis, da cui fui prosciolto in istruttoria, proseguita in
seguito con l’accusa, dimostratasi infondata, di corruzione aggravata e
un’altra serie di imputazioni dalle quali sono sempre uscito indenne) ha
gravato sul mio certificato dei carichi pendenti in una maniera tanto seria che
la Comunità Artigiana non poteva più per causa mia stipulare contratti per
opere pubbliche e, nel 2003, per evitare che la società finisse per mancanza di
commesse, mi dovetti dimettere da amministratore e da socio. Venne poi lo
scioglimento tutto politico del Consiglio comunale per infiltrazioni
camorristiche (annullato 90 giorni dopo dal TAR che mi riaffidò il governo
della città) e le banche, che prestavano soldi all’azienda solo ed
esclusivamente per la fiducia che avevano nella persona, tolsero gli
affidamenti e chiesero il rientro delle esposizioni; gli ultimi due - tre anni
furono una tragedia che si concluse con la dichiarazione di fallimento della
società che, essendo una Snc (società in nome collettivo), comportava anche il
fallimento dei singoli soci, ma non il mio che da tempo non ne avevo più la
qualifica”.
Com’è allora che si parla anche di un suo fallimento
personale?
“Sono
stato trascinato nel fallimento della Comunità Artigiana solo in un secondo
momento, quando qualcuno, magari convinto con ciò di segnare la fine della mia
vita politica, ha prodotto nuovi documenti, in calce ai quali era stata apposta
la mia firma non autentica, con la stampiglia che usavo quando facevo il
sindaco; volendo con ciò dimostrare che, anche dopo le dimissioni, continuavo a
gestire la società. Il tribunale ha preso per buono questi documenti e mi è
piovuto addosso il fallimento”.
E questo rinvio a giudizio a cosa è dovuto?
“Nella
norma, alla dichiarazione di fallimento segue un’indagine per bancarotta; nel
mio caso, dopo che il PM ha proposto due volte l’archiviazione, il GUP ha
voluto che la cosa fosse approfondita in un processo e da qui il rinvio a
giudizio che, per la verità, non mi sconvolge nemmeno un po’ sia perché so come
stanno veramente i fatti sia perché sono stato rinviato a giudizio per le cose
di cui ho parlato prima che sono ben più pesanti della bancarotta e tutte le
volte è stata la Giustizia a fare verità. E farà verità anche questa volta”.