Rifiuti nelle cave, servono controlli



Francesco Iacotucci (Terra Napoli)
PROVINCIA. Il presidente Cesaro vuole sversare l’umido stabilizzato. Ma è necessario verificare prima il materiale e il terreno.
Nel Consiglio provinciale di Napoli interamente dedicato al tema rifiuti, il presidente Cesaro ha ribadito che il Piano della Provincia, nel breve periodo, consiste nell’individuare delle cave dove poter sversare il materiale umido stabilizzato in uscita dagli impianti di trattamento dei rifiuti (Stir). Su che norma si basa la soluzione di collocare il materiale umido in uscita dagli Stir nelle cave, come se fosse semplice materiale di riempimento? Sul decreto 196/2010 in cui si legge che «i rifiuti aventi codice Cer 19.05.03 (compost fuori specifica), previa autorizzazione regionale, possono essere impiegati quale materiale di ricomposizione ambientale per la copertura e risagomatura di cave abbandonate e dismesse, di discariche chiuse ed esaurite, ovvero quale materiale di copertura giornaliera per gli impianti di discarica in esercizio».

Tuttavia prima di tale operazione sono necessari tre tipi di controlli, a cui finora la Provincia non ha accennato: controllo del materiale, controllo del terreno da ricomporre, valutazione del tipo e quantità di miscelazione necessaria. Il materiale umido in uscita dallo Stir è a tutti gli effetti (per il decreto Ronchi) un rifiuto, quindi dovrebbe per norma andare in una discarica (in uso). La possibilità  di utilizzare tale materiale per la ricomposizione ambientale di cave è stata oggetto di studi negli ultimi venti anni, ed i risultati sono  sempre vincolati da severi controlli di qualità sul prodotto utilizzato.

In particolare per definire il materiale umido come «compost fuori specifica», esso deve rispondere a precisi criteri di qualità per esempio rispetto alle concentrazioni massime di metalli pesanti (come nichel, cromo, cadmio) e di inerti (plastiche e vetri), un certo grado di umidità, ecc... Una volta verificata la qualità del biostabilizzato, va verificata la compatibilità con il terreno/cava di destinazione, valutando: le caratteristiche chimiche del sito, la presenza di metalli pesanti, la vicinanza con corsi d’acqua o ad aree a riserva naturale. Una volta caratterizzati il sito ed il materiale va studiato la giusta miscelazione del materiale biostabilizzato con altri materiali inerti (terre di coltivo e di sbancamento, altri materiali di recupero) allo scopo di far rientrare sempre nei limiti di legge il terreno ed il sottosuolo anche dopo la ricomposizione.

Un’ulteriore perplessità nasce dalla dichiarata intenzione di eseguire non superficiali ricomposizioni di cave, bensì veri e propri riempimenti con tale materiale. Studi come quello dell’Apat e quello della Regione Piemonte prendono in considerazione ricomposizioni per profondità limitate (1 metro circa), dichiarando che per profondità ulteriori i pericoli di inquinamento da metalli pesanti aumentano considerevolmente. Il decreto 196 non è quindi l’uovo di Colombo: l’uso del biostabilizzato per ricomposizioni ambientali è vincolato dalla legge. Se non rispetta questi vincoli dovrà essere trattato come rifiuto tal quale e conferito in un’apposita discarica.

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