Calvizzano è certamente un paese
di origini antichissime. I documenti ritrovati nel corso di campagne di scavi
effettuate dall’inizio del Novecento in poi e le ricerche archivistiche,
compiute con l’amore di figli riconoscenti dai non mai abbastanza compianti
professori Raffaele Galiero e Giacomo Di Maria, hanno consentito di definire
con cura le caratteristiche grazie alle quali e sulle quali il borgo ha preso
origine e si è sviluppato.
Ad esempio, pare ormai accettato
comunemente che il suo nome possa essere derivato da quello di un’antica
famiglia romana (“Calvisia”) o comunque da un aristocratico patrizio romano
(“Calvisio” o “Calvizio”): dell’una, e/o dell’altro, si conserva traccia del
legame col territorio, dal momento che le prime testimonianze archeologiche
risalgono a un’epoca riconoscibile e attribuibile tra gli ultimi tre secoli
dell’età repubblicana e il primo di quella imperiale romana.
Dovette essere costituito,
all’inizio, un piccolo nucleo di case sparse, probabilmente intorno alla villa
di un ricco patrizio, che si costituì un “rifugio”, come era di moda all’epoca
per i maggiorenti della Capitale, così come confermano i numerosi insediamenti
romani attestati in tutta la zona a Nord di Napoli.
Dai nomi
Calvisio/Calvizie/Calvisia sarebbero, per progressiva deformazione e
trasformazione, venuti fuori quelli più riconoscibili di
Calvisiano/Calbictiano/Calvizzano/Calvizzano.
La testa calva che campeggia nello
stemma comunale è, probabilmente, più un riferimento semplicistico a una
rappresentazione visiva e immediata, richiamata dal nome del nostro piccolo
centro, che una reale conferma del rinvenimento di “teschi calvi” accanto a quelli
di “uomini sani”, da cui qualche dotto del passato, ad iniziare dal notaio
Marco Antonio Sirleto, faceva discendere il termine “Calvisani”.
Un’annotazione storica precisa
relativa alle origini di Calvizzano, viene da due punti contrapposti sul
territorio del paese, legati indissolubilmente alla pietà religiosa popolare.
Il primo riguarda la “località San Pietro”, con l’omonima cappella, ancora oggi
posta in una posizione eccentrica rispetto al centro storico, che fin dal nome
ricorda il probabile passaggio dell’apostolo Pietro sulla strada romana che
metteva in comunicazione Pozzuoli con Capua, quasi una variante dell’antica
Appia, lungo la via Campana.
Il secondo fa riferimento
all’antica chiesa parrocchiale “Santo Jacolo”, ovvero San Giacomo, primo nucleo
autonomo dei fedeli locali, oggi ridotta a un rudere.
I resti del sepolcro di Caio
Nummio e di altre tombe e manufatti romani, monumenti millenari ritrovati nei
pressi della chiesa Santo Jacolo, sono stati studiati da valenti archeologi,
che hanno confermato la teoria più accettata delle primordiali origini del
nostro piccolo centro, che, al di là di una limitata estensione territoriale
(circa 3 kilometri quadrati), ha avuto fulgide vicende storiche, com’è reso evidente
anche dalla splendida e monumentale chiesa madre, dedicata a Santa Maria delle
Grazie (quindi, alla Madonna della Grazia), che sembrerebbe risultare, a ben
vedere, per dimensioni e ricchezza di opere d’arte in essa contenute, di gran
lunga più importante e sproporzionata rispetto al numero di abitanti che il
centro doveva avere nei secoli XVI e XVII, quando essa fu costruita e poi
ultimata.
La spiegazione di una tale
imponenza della Chiesa va ricercata nell’epoca in cui Calvizzano, il cui nome è
già riportato in una pergamena del 27 marzo 911, da “lucus” si trasformò in uno
dei principali Casali della città di Napoli. Un centro la cui attività era
quella agricola, come tradizionalmente accadeva in tali insediamenti e
agglomerati urbani (Casale, infatti, stava a indicare un insieme organizzato di
case).
Divenuto in seguito “feudo”, il
paese fu dominato da potenti famiglie, sia all’epoca della dominazione francese
che sotto quella aragonese/spagnola. Il barone Antonio Carnero, dopo essere
stato per un breve periodo sotto il tutoraggio della madre, donna Giuseppe
Zuffa, divenne Signore del borgo e lo governò fino alla morte, trasmettendolo,
quindi, alla sorella Donna Margherita Carnero, che sposò, nel 1681, il cugino
materno, Don Diego dei duchi di Pescara. E questa famiglia, da una generazione
all’altra, dominò il paese fino al 1806, quando un regio decreto abolì i feudi.
Cominciò così, in tale anno, il
periodo del decurionato che si protrasse fino alla caduta del Regno delle Due
Sicilie e all’aggregazione del nostro Meridione, dopo la vittoriosa impresa
garibaldina dei Mille, nell’unitario Regno d’Italia. Ci furono, pertanto, il
periodo dei sindaci del Consiglio comunale (dal settembre 1861 all’aprile
1926), poi quello podestarile, in epoca fascista, fino al dicembre 1943, e,
infine, quello successivo alla liberazione del nazi/fascismo (dal gennaio 1944
al novembre 1946) e quello dell’epoca repubblicana e democratica più vicina a
noi.
Le famiglie e gli uomini che hanno
retto le amministrazioni pubbliche del paese, sia per nomina regia o
amministrativa che a seguito di libere elezioni generali, hanno, ciascuno a
proprio modo e con limiti inevitabili dei vari momenti storici, dato un
contributo al rinnovamento, alla conservazione e alla trasformazione del paese.
L’episodio di storia patria che
supera gli angusti confini della memoria locale è quello della cattura
dell’Ammiraglio Francesco Caracciolo, avvenuta alla fine del mese di giugno del
1799 nel Palazzo Ducale, dove il potente uomo di mare si era rifugiato presso
il cugino Francesco Maria Pescara, a seguito del fallimento del tentativo
riguardante l’effimera Repubblica Partenopea, nel periodo decennale della
Rivoluzione che in Francia aveva messo fine all’antico regime.
Inoltre, Calvizzano, per molto
tempo è stata famosa presso i paesi del circondario e in quelli della
provincia, anche per alcune specifiche tradizioni, purtroppo ormai quasi tutte
sfumate: quella di distribuire, in occasione della ricorrenza della memoria
liturgica del Patrono, pane ai poveri, che accorrevano anche da Napoli e dagli
altri comuni, richiamati dalla fede e dalla generosità locale; e ancora quella
riguardante una produzione di biscotti artigianali che, pur non riuscendo mai a
superare le dimensioni di proto/industria, rappresentava, per la sobria società
di quel tempo, una vera leccornia, alla quale poteva accedere anche quella
fascia della popolazione più umile che non poteva certo concedersi molti agi e
grandi lussi nella scelta degli alimenti; e infine una fabbrica di liquori,
preparati su antiche ricette conservate con fedeltà anche quando la produzione
è passata da una fase familiare e artigianale a una di tipo industriale.
Ed ancora, un altro spicchio di
storia riguarda il monumento ai caduti di tutte le guerre, datato 1934.
Esso ingloba, in un recinto, un
cannone sottratto agli austriaci in ritirata, nella rotta che portò l’esercito
italiano alla vittoria nel novembre 1918. Armando Diaz donò personalmente
quella preda bellica, quando era ministro della Guerra, al podestà Domenico
Mirabelli, in virtù anche di una parentela diretta con questi da parte della
moglie, Sarah De Rosa Mirabelli, appunto. La donna lo aveva portato a visitare
il nostro borgo e il Duca della Vittoria, al quale è intitolato l’edificio
della scuola elementare, veniva spesso a trascorrere dei periodi di vacanza
durante l’estate, con la famiglia.
E così, il cannone, dopo essere
stato conservato per qualche tempo nel cortile di Palazzo Mirabelli e poi nel
deposito del Comune, fu sistemato, in virtù di un progetto unanimemente
auspicato dalla popolazione, nel luogo in cui si trova attualmente, e cioè
piazza Umberto I.
Ed inoltre va detto che sui tetti
del paese campeggia, da quasi tre secoli (la costruzione fu iniziata nel 1713)
l’alta torre campanaria, visibile da ogni punto del territorio comunale e
oltre. Una struttura che stende quasi un’ala protettiva su quanto c’è nei
dintorni, con il suo orologio sonoro, gestito da un congegno elettronico, che
gli consente di scandire, oggi come nel passato, lo scorrere del tempo.
Non conosciamo l’autore di questo bellissimo testo di
storia locale che abbiamo reperito spulciando tra i nostri documenti. Se
qualcuno di voi ce lo segnalerà, saremo ben lieti di evidenziarlo.
Per quanto concerne la cattura dell’Ammiraglio Caracciolo,
in un altro articolo apparso recentemente sul nostro blog, abbiamo riportato la
versione del canonico e scrittore don Giacomo Di Maria, cioè che l’eroe della
rivoluzione partenopea fu catturato in un palazzo di via Case Sparse, oggi via
Carlo levi.